lunedì 1 agosto 2011

Tolmezzo e la Carnia nella storia.




Introduzione.

La storia locale, purtroppo, non rientra nei programmi d’insegnamento. Se a volte per merito di qualche bravo docente gli alunni ne vengono a conoscenza, sono portati a vederla come qualcosa di diverso e separato rispetto alla storia ufficiale studiata nel programma di studi. Invece è proprio la conoscenza della storia locale, che più si lega alle vicende del paese nel quale lo studente vive, che è importante e indispensabile per capire la storia generale.
Si capisce la storia della filosofia quando ci si rende conto che non è solo materia di studio, ma un percorso per capire se stessi. Lo stesso vale per la storia: la si capisce quando la si legge come percorso di sviluppo della civiltà nel suo complesso, attraverso il percorso dei paesi e degli individui: un fiume che viene da lontano nel quale si muove anche la nostra piccola goccia.
La si capisce quando la si legge come il contesto ampio nel quale si è sviluppato anche il proprio piccolo paese, in un percorso nel quale alcuni grandi uomini hanno lasciato un segno, ma nel quale tanti piccoli uomini hanno lasciato l’orma della loro vita, nel quale anche ognuno di noi lascerà un’orma, piccola o grande che sia, non ha importanza.
Si è affermato oggi un brutto termine che ha però un significato profondo e pregnante: “glocale”, sintesi da globale e locale. Più le tecnologie dell’informazione ci aprono al mondo globale è più è fondamentale che sentiamo la necessità di calare un’àncora nel locale. Più siamo costretti a vivere nella folla del mondo e più è importante impariamo ad ancorarci alla nostra peculiare umanità, alla nostra individualità e quindi alla nostra piccola storia.
In questa prospettiva ho pensato ad un riassunto della storia locale che si interseca con il riassunto della storia d’Italia e dell’Europa. Un riassunto del manuale di storia usato dagli studenti, con un collegamento continuo al riassunto della storia locale. Un riassunto appena abbozzato, con tanti aspetti ancora da definire, solo una traccia per consentire ad ogni studente un proprio riassunto. Una traccia per gli insegnanti da condividere e sviluppare con gli studenti. Una traccia per uno svolgimento che sarà costituito dal percorso di studio di storia di ogni studente.
Per questo oltre al testo cartaceo è disponibile in internet al sito http://www.piutti.it il file che può essere scaricato liberamente, ed integrato a piacere, con collegamenti e riassunti personalizzati sviluppati da ogni studente e da ogni classe. Alla fine del corso di studi ogni studente si troverà così ad avere una sorta di portfolio personale di quanto sa e di quanto ha capito del profondo intreccio tra storia locale e storia globale, lo stesso intreccio che si svilupperà tra la sua storia personale di individuo e quella del suo paese, della sua Patria, del Mondo.
Diceva il Foscolo: “o italiani io vi esorto alle storie, perché niun popolo più di voi può mostrare né più calamità da compiangere, né più errori da evitare, né più virtù che vi facciano rispettare”
Credo che l’appello calzi a pennello anche per i Carnici. Come emerge anche da questo riassunto, non sono mancate né le calamità né gli errori, ma è stata la virtù, lo spirito di sacrificio, l’impegno caparbio a non accettare mai la sconfitta, che ha fatto emergere il dato e la virtù da far rispettare, per trovare in questo dato l’humus nel quale far radicare il nostro presente di piccolo popolo e di singole persone.
Come ho già detto il mio non vuole essere un nuovo contributo alla storia di Tolmezzo capitale della Carnia. Altri hanno scritto questa storia molto bene, con la pazienza di ricostruirla scavando tra i documenti sepolti nella polvere degli archi. E fra questi in particolare gli amici architetto Claudio Puppini e la dottoressa Marisa De Pauli ai cui lavori il mio si richiama, al punto di potersi considerare una sorta di riassunto.
Io vorrei, con minore ambizione, farne il racconto, o meglio ancora vorrei dare parola a lei, alla città capitale della Carnia perché si racconti, con le parole degli uomini che nei secoli hanno vissuto e interpretato il racconto come protagonisti, con la loro fatica quotidiana.. Un racconto più vicino all’uomo che ai documenti, attento a sentire tra le strade della Tolmezzo e della Carnia di oggi la suggestione del respiro degli uomini che le hanno percorse nei secoli.
Un racconto leggero, tra storia e leggenda, nel quale il dato documentale viene integrato anche dalla leggenda che cerca di riproporre quella umanità che s’è persa nel freddo dei documenti, come il racconto del nonno quando parla della sua casa ai nipoti che ora la vivono, ed a quelli che la vogliono visitare. Il racconto d’una Tolmezzo che ho sentita più mia, quando ho avuto l’onore di rappresentarla come Sindaco dal 1975 al 90, e in particolare nei momenti difficili del terremoto del 1976. E’ infatti quando la casa trema e minaccia di crollare che più ne senti l’importanza, ed il valore, ed è questa importanza e questo valore che vorrei riuscire a trasmettere. I paesi e le città, come le case, possono crollare anche per l’incuria di chi vi abita.
Nel mio percorso personale di vita l’esperienza di Sindaco mi ha messo nelle condizioni di lasciare quella di insegnante, vorrei ora, per un momento, riprendere la cattedra di insegnante di storia nelle scuole superiori di Tolmezzo, mettendo a frutto l’esperienza di Sindaco. In questa doppia veste il mio vuole essere un invito ai giovani a conoscere il loro paese, per sentire il valore dell’appartenenza. Conoscerlo per apprezzarlo ed amarlo.
Ho cercato di scrivere da insegnate di storia, utilizzando i libri che altri hanno scritto con più pazienza e competenza, preoccupato soltanto di far capire come la storia d’ogni paese sia un momento della grande storia, e come i due momenti vadano visti assieme.
Come ho già detto e voglio ripetere, mi piace pensare che possa costituire una traccia sulla quale gli studenti delle scuole superiori della Carnia sviluppano i loro approfondimenti per costruire un percorso condiviso di conoscenza della storia della Carnia che si innesta nella storia dell’Italia e del mondo.
Ho voluto anche integrare la parte storica con alcune leggende, parte frutto della fantasia e parte recupero e sviluppo di leggende che si sono tramandate nei secoli, nella convinzione che anche le leggende possono contribuire se non a far capire la storia degli Stati, a far intuire la vita degli uomini attraverso la storia.
La mia non ha quindi neppure la pretesa di essere una storia degli uomini, ma soltanto un racconto della vita degli uomini nella storia, appunto il racconto di Tolmezzo e della Carnia nella storia.
Spesso gli argomenti sono solo accennati. spesso le affermazioni sono discutibili, ci sarebbe ben altro da dire, tanto altro da aggiungere. Ripeto. E’ proprio questo ciò che vorrei: che qualcuno dicesse, che qualcuno aggiungesse…, che il mio racconto servisse ad aprire discussioni, confronti di idee.
Mi piacerebbe che i miei appunti, anche nel loro disordine e nella loro superficialità potessero servire per una ripresa della ricerca dei caratteri originali della storia del popolo di Carnia, per favorire anche attraverso la riconosciuta originalità di questi caratteri e valori, la costruzione d’un futuro nel quale il valore dell’identità diventa competenza aggiuntiva per le sfide che riserva il domani nella prospettiva della globalizzazione.
Sognando l’ombre d’un tempo che fu
del Comun la rustica virtù…

La Carnia nella protostoria e preistoria.


Le rocce più antiche della Carnia si sono formate in fondo al mare nel periodo Ordoviciano (460-440 milioni di anni fa) e Silurano (440-410 ) l’antico Paleozoico. “Ma sono le rocce di età devoniana (410-360 milioni di anni fa a dare l’impronta severa alla giogaia delle Alpi Carniche” (Venturini)
Il paesaggio della Carnia così come oggi appare ai nostri occhi si è invece venuto formando lentamente nel Pleistocene. Con questo nome ci si riferisce al periodo della storia geologica della terra che va da 1.800.000 anni prima di Cristo agli 8300. In questi 18.000 secoli, per quattro volte il ghiacciaio carnico all’alternarsi di epoche più calde e più fredde, è avanzato fino alla pianura, per poi ritirarsi e lasciare che fossero i fiumi a modellare le valli.
Da questo mare di ghiaccio alto centinaia di metri, emergevano già le cime più alte del Cridola, del Coglians, del Montasio e del Canin, e più a sud del Plauris e del S. Simeone.
Contemporaneamente ha inizio la storia dell'uomo. Lo stesso periodo che nella storia geologica prende il nome di Pleistocene, assume quello di paleolitico nella storia dell'umanità. Non è chiaro ancora di che uomo si debba parlare, ma in effetti era comparso, (e vicino a Marsiglia si hanno testimonianze risalenti ad 1 milione di anni fa), un particolare animale che aveva cominciato a pensare tant'è che era riuscito a scoprire che se un ciottolo viene scheggiato, ricavando uno spigolo o una punta può servire per tante cose. Era un uomo che non aveva fretta di imparare se 400.000 anni dopo, e quindi 600.000 anni fa, vicino a Nizza, lascia degli attrezzi di pietra solo un po' più rifiniti.
I nuovi ritrovamenti dimostrano però che l'uomo ha scoperto il fuoco, e sa anche ripararsi costruendo delle capanne di legno. Non dovevano essere in molti e non c'era motivo per andare ad abitare nelle zone impervie sulle montagne, ma tuttavia forse già allora il fascino della montagna, o il bisogno della caccia, spinge l'uomo in alto, e 100.000 anni fa l'uomo lascia resti della sua presenza nel cantone di San Gallo in Svizzera a 2500 m. Nella nostra regione i primi ritrovamenti, presso Aurisina sul Carso triestino, risalgono a 350.000 anni fa. Ma insediamenti più diffusi nelle grotte di San Leonardo e di Pradis si ritrovano soltanto a conclusione dell'ultima glaciazione, quando il ghiacciaio carnico si ritirò progressivamente e definitivamente attorno al 20.000 a.C.
Quando con la storia del globo terracqueo si entra nell’Olocene, nel 8300 a.C., l'uomo entra nel periodo storico del mesolitico. Alla fine di questo periodo, e siamo già al 6000 a.C. si hanno anche le prime testimonianze della presenza dell'uomo in Carnia. Presso Casera Valbertat, in Val di Lanza e presso il laghetto di Pramollo si sono ritrovati gli strumenti dei primi abitanti.
Ma forse erano soltanto cacciatori venuti dalla Carinzia. L'Austria era infatti già popolata: in Stiria, anche in grotte in quota, si ritrovano resti risalenti a 100.000 anni fa. L'uomo aveva avuto nel frattempo una decisa evoluzione somatica, quello che si ritrova dopo l'ultima glaciazione, (ma già a partire da 30.000 anni fa), assomiglia ormai completamente all'uomo d'oggi al punto che gli ulteriori sviluppi sono quasi insignificanti.
Con l'evoluzione della specie si era evoluta anche la tecnologia e l'uomo aveva finalmente imparato non solo a scheggiare ma anche a levigare la pietra per fare degli attrezzi. Essendosi fatto il clima più caldo e umido l'uomo fu poi costretto a migliorare ancora gli strumenti di caccia e in altri 2000 anni di storia e quindi verso il 4000 a.C. arrivò a produrre una vera ascia in pietra levigata.
Si era così entrati nel periodo del neolitico (8300 – 2500) che significa appunto della pietra levigata, ed anche i ritrovamenti della presenza umana in Friuli si fanno ancora più frequenti. Per gli insediamenti, veniva preferita la zona collinare vicino ai corsi d'acqua, come si è detto, non c'è ancora nessun motivo per risalire ad abitare le valli della Carnia. È stato un periodo caratterizzato da profonde rivoluzioni. L'uomo aveva già imparato (già dal 6000) ad addomesticare gli animali, impara anche raccogliere i semi di alcune piante e a utilizzarli per coltivarle. Impara ad affilare le selci ed anche a bucarle al punto da farne dei perfetti strumenti da lavoro, come le falci. Impara infine ad utilizzare l'argilla per farne dei recipienti e subito si scopre artista nel desiderio di lasciare sulle argille cotte dei segni del suo pensiero.
Con il 2500 ha inizio l’eneolitico, l'età del rame, l'uomo è ormai in grado di realizzare armi in selce perfettamente levigata, inizia ad utilizzare il rame. In Friuli tuttavia non si hanno significative testimonianze della presenza dell'uomo in questa età.
Il rame da solo non poteva avere utilizzi importanti e il passo successivo, decisivo nella storia dell'umanità, lo si ha con la scoperta che da una lega di rame e stagno si produce il bronzo. La scoperta era già nota in Egitto sino dal 2800 a.C. ma ci volle quasi un millennio perché venisse a conoscenza delle popolazioni dell'Europa. Gli Illirici e i Veneti probabilmente la importarono emigrando dai luoghi di origine indoeuropea. In un primo momento la tecnica fu utilizzata soltanto per realizzare armi, poi con lo sviluppo dell'agricoltura anche per gli utensili. L'età del bronzo (1900-900) viene divisa in fasi (antica, media, recente, finale) ognuna delle quali corrisponde a momenti importanti per lo sviluppo della civiltà.

I Carni

Nel capitolo precedente si è parlato degli insediamenti dei primi abitanti della Carnia e del Friuli ma a quale gruppo etnico appartenevano e da dove venivano?
Gli insediamenti umani del neolitico, come nel vicino Veneto, sono quelli degli Euganei, dei quali tuttavia non si conosce molto al di là del nome. Da est arrivarono successivamente i Veneti che occuparono anche la pianura friulana fino a Trieste e spinsero gli Euganei a rifugiarsi nelle valli interne della Lombardia. All’inizio dell’età del ferro entrarono in contatto con questi, ma probabilmente in modo pacifico, i Celti che scendevano dal Nord ove si erano precedentemente stanziati.
Da dove erano originari, da dove provenivano? Dallo stesso ceppo indo-europeo, stanziato attorno al Mar Caspio, si erano staccati diversi popoli che, separati e senza contatti tra loro, avevano sviluppato diverse culture. La corrente greco latina si era stabilita sul Mediterraneo, mentre quella celtica aveva occupato l'Europa centrale. Nella fase iniziale di sviluppo le due civiltà non avevano avuto contatti. Nella fase successiva di espansione, muovendosi gli uni verso nord e gli altri verso sud erano finiti per entrare obbligatoriamente in contatto e logicamente in conflitto.
Come si sa alla fine ebbero la meglio quelli che provenivano dal sud, e, come d'uso, i vincitori hanno sempre scritto anche la storia dei vinti, per cui i Celti sono stati registrati come barbari. La storia dei vincitori mette in evidenza anche la forza dei vinti, non fosse altro che per sottolineare il merito e il valore della vittoria. Così tutti studiano di Roma invasa e messa a ferro e fuoco nel 390 da quelli che i greci chiamavano Keltoi, e che invece i Romani come scriverà Cesare “ ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur”, (nella loro lingua si chiamano Celti, nella nostra Galli), guidati dal feroce Brenno. Nella sede del Senato, a palazzo Madama, campeggia il quadro del senatore Papirio offeso da un celta che gli tira la barba e famosa è rimasta la battuta di Brenno “Vae victis, guai ai vinti” che i Romani dimostreranno di avere imparato alla perfezione per poterla ripetere in ogni parte dell'Europa.
A occidente i Celti Cisalpini avevano occupato gran parte del Piemonte e della Lombardia fondando Milano e Torino e i Cispadani oltrepassando il Po si erano insediati nell'attuale Emilia-Romagna. Ad oriente invece la loro calata è stata bloccata dei Veneti, ed i Carni, la tribù scesa più a meridione, aveva dovuto limitarsi all'occupazione delle Alpi e delle Prealpi carniche e del Carso. Anche Trieste viene in infatti ricordata da Stradone come “vicus carnorum – villaggio dei carni”.
Stanziati sulle montagne, non avevano avuto modo di scontrarsi con i Romani se non quando questi avevano deciso l'occupazione del Norico (Austria), e avevano dovuto quindi assicurare la viabilità di collegamento attraverso il passo di Monte Croce Carnico.
Nel frattempo, i Romani erano venuti già a patti con i Celti transalpini che abitavano l’Austria attuale. Li avevano convinti a rientrare nel loro sedi, una prima volta quando avevano invaso la pianura friulana, costituendo un caposaldo sul colle di Medea a poco distanza da Aquileia. Successivamente avevano accettato che si insediassero a coltivare la pianura friulana, fino ad allora pressoché deserta, salvo qualche insediamento dei Veneti.
Poi a seguito d'una rivolta di questi primi Celti importati dall'Austria, con Tiberio e Druso il fiore della gioventù carnica “fu levato dalle montagne e tradotto ad abitare nel piano”. Erano questi i Celti delle montagne con i quali i romani erano già venuti a contatto quando, come ricorda Paschini, nel 220 “i consoli Veturio Filone e Lutezio Catulo riuscirono a guadagnare all’amicizia romana anche le popolazioni barbare che abitavano le valli alpine al di sopra di quelle dei Veneti e degli Istri”.
I Celti Carni furono così utilizzati dai Romani per tenere sotto controllo i cugini celti transalpini già immigrati nella pianura friulana. Pare quasi di poter far risalire a quei tempi la distinzione ancora esistente tra carnici e friulani, e la rivalità mai sopita!...
Comunque pur nella diversità originaria tra i Carni e i Transalpini friulani, i Celti svilupparono in seguito tra il Tagliamento e l’Isonzo una loro civiltà con autonomia anche linguistica che rimase malgrado e oltre l'occupazione romana.
Sulle montagne gli insediamenti celtici continuarono convivere con gli insediamenti dei conquistatori, come Iulium Carnicum, ma non si assimilarono mai ai conquistatori, tant'è che è rimasta ancora viva una lingua, quella friulana, che ha poco a che vedere con il latino e con il suo derivato italiano e che non a caso ha maggiori affinità con il francese dei Galli che con l’italiano. Come ricorda lo storico Tito Maniacco “è certo che lo strato gallico che sta alla base della parlata friulana è rimasto uno degli elementi costitutivi della fisionomia linguistica e culturale del Friuli”.
Il fatto che ci sia stato un periodo di convivenza tra gli insediamenti romani invasori e quelli dei celtici autoctoni può trovare conferma indiretta nei molti toponimi che ci parlano dei Salvàns o Pagàns, e nelle leggende che fino ad oggi sono rimaste su questi luoghi. Come ricorda il Grassi l’occupazione del territorio con coloni latini provenienti dal Lazio è confermato da una toponomastica che richiama quella della regione attorno a Roma. “come Formeaso da Formia, Imponzo da Pontianum, Sezza da Sezze, Cabia da Gabio, Arta da Ardea, Chiusini da Chiusi, Noiariis da Nocera, Sutri da Sutri e Cercivento da Circe”
Ad onor del vero va aggiunto che secondo alcuni storici sarebbe arbitrario addirittura parlare dei Celti, perché il popolo che avrebbero trovato i romani sulle montagne era quello dei Veneti. Secondo altri invece, come si è detto, in precedenza c’erano stati i Veneti ma poi nel quarto secolo a questi sono subentrati i Carni.
Ai i fini della storia c’è ancora molto da discutere e da ricercare, ai fini del racconto invece ci basta sapere che quando sono arrivati i romani ed hanno iniziato a tener nota della storia degli abitanti di questi luoghi, evidentemente c’era già qualcuno. Non a caso il centro più importante dei Romani, Iulium Carnicum, si sviluppa in contiguità con Segesta (Sezza), quello che probabilmente era stato il centro di maggiore rilievo degli autoctoni.
Comunque al di là della disputa tra archeologi su quel poco che si è trovato, Strabone attribuisce il nome di Carni ai Celti che si erano insediati nell'arco dell'alto Adriatico e nel territorio di Aquileia (IV, 6, 9, 206) e sostiene che il monte Ocra (cioè la parte settentrionale dei rilievi carsici) rappresentava il confine fra il loro territorio e quello dei Giapidi (IV, 6, 10, 207); aggiunge, inoltre, che Trieste era un villaggio carnico (VII, 5, 2, 314). Anche Plinio chiama carnico tutto questo territorio (Nat. Hist., III, 18, 126) e scrive che “Carnorum haec regio (questa è la regione dei Carni)”, definendo in tal modo come territorio carnico l'estrema zona orientale friulana sino ai confini con l'Istria. Tolomeo afferma che i Carni erano stanziati sui luoghi dell'Adriatico, nei quali sfociavano in mare il Tagliamento e il Natisone (III, I, 22) e definisce città carniche non solo Aquileia e Foro Giulio, ma anche Concordia, assicurandoci che il Livenza costituiva fin d'allora il confine tra carni e veneti (III, I, 26-29).
Erano i Carni che hanno dato il nome al territorio, nome che è arrivato sino a noi a dispetto di ogni successiva invasione ed occupazione. Che fossero Celti o Veneti poco importa.
Come emerge anche dalle citazioni, sono richiami geografici più che storici quelli che si riferiscono a loro, perché il Friuli entra nella storia scritta nel 186 a.C quando una tribù di Celti Transalpini valica le Alpi e pensa di stabilirsi nella pianura friulana. Vengono respinti e nel 181, come scrive Livio “in terra dei Galli fu fondata la colonia latina di Aquileia”.
Anche la Carnia entra così nella storia, e siamo appena due secoli primo di Cristo. Gli archeologi fanno risalire i resti del primo uomo al 6.000 a.c. Quante generazioni si sono succedute in questi sei millenni? A vivere come? Con quali contatti con le civiltà che si stavano sviluppando nel vicino Mediterraneo?
I ritrovamenti archeologici della valle del Gail fanno ritenere che già gli Etruschi conoscessero la via per il passo di Monte Croce e siamo al mille a.C. “L’Etrusco era un geniale costruttore di strade e in montagna non badava, come il Romano, al dislivello, per cui in quel caso ovviava con i tornanti” (Quai) si potrebbe quindi anche ritenere che la viabilità del tempo fosse quella che saliva dalla valle del lago, passava per Verzegnis per poi scendere, attraversare il Tagliamento alla Madonna del Sasso, risalire fino a Somp lis Voris e poi proseguire per Sezza.
Se da qui passava il commercio etrusco transalpino il territorio non era isolato. Nelle regioni attigue era già iniziata la storia degli uomini, e non si può escludere che qualche riflesso si sia avuto anche nelle regioni che fanno da cerniera al Mare Adriatico.
Risalgono al 3.200 a.C le prime notizie storiche sugli Egiziani, ed assieme alla storia dei Faraoni d’Egitto si sviluppa quella dei popoli della Mesopotamia e quella degli Hittiti nell’attuale Turchia. In Grecia si sviluppa la civiltà micenea, ma verso il 1.500 subentrano gli Achei e dal loro espansionismo deriva lo scontro per la città di Troia, che la poesia di Omero ha fatto diventare il riferimento storico centrale di quei secoli. Siamo agli inizi del XIII secolo e più o meno negli stessi anni Mosè guida gli Ebrei fuori dall’Egitto e inizia la storia di un altro popolo che tanta parte avrà nella storia dell’umanità fino ai giorni nostri.
In Grecia si affermano le civiltà di Sparta ed Atene ed i greci se la devono vedere con l’espansionismo dei Persiani. Nel 323 muore Alessandro Magno ed ha fine il primo sogno universalistico della storia. Intanto nella penisola più ad ovest che prenderà il nome di Italia, più o meno nel 600 a.C., secondo la leggenda, due gemelli erano stati salvati da una lupa ed ha inizio la storia del popolo che con le sue mire espansionistiche arriverà, come s’è già detto, fino alle nostre montagne per segnare l’ingresso nella storia dei nostri territori e degli abitanti che vi abitano..

Le origini di Tolmezzo.

Se alla tentazione di darsi una nobile origine non è venuta meno la capitale, inventando la leggenda di Romolo e Remo e della lupa, non fa meraviglia che anche per una cittadina di provincia, qualcuno abbia pensato di legare le origini a qualche episodio eroico leggendario.
Così la difficoltà a spiegare le origini del nome Tolmezzo, ha portato a costruire la leggenda d'un luogotenente di Giulio Cesare, di nome Tullius Metius, che cadendo valorosamente da queste parti, quando vi transitò Cesare con le sue truppe, diede il nome al paese.
La leggenda è persino credibile, ma non può essere vera, perché ove oggi sorge Tolmezzo, ai tempi di Cesare, molto più probabilmente passava il fiume. Non si riuscirebbe altrimenti a spiegare come in una posizione così strategica ed interessante, fin dopo il mille non si sia sviluppato niente, castello o villaggio, che abbia lasciato una qualche traccia nella storia.
A meno che non si pensi appunto che la confluenza tra il But e il Tagliamento avveniva più sottomonte, come è dimostrato anche dal fatto che quasi fin sotto alle pendici dello Strabut, il sottosuolo di Tolmezzo è quello del greto d'un fiume. Il fatto che non esistesse una riva sinistra transitabile del torrente But, alla confluenza con il Tagliamento, spiega molto bene come i Romani abbiano dovuto scegliere per la loro viabilità la riva destra con una soluzione che, alla luce dell'orografia attuale, appare incomprensibile.
Per questo, almeno a sottolineare il fatto che il paese è sorto sul Tagliamento, anche a prescindere dalla validità sul piano etimologico, è preferibile l'interpretazione dell'origine del nome che fa il Palladio, affermando che l'originario nome del Tagliamento era Tulmentum, da cui derivò il nome Tulmetium.
"nomen fecere praeterlabentes acquae Taliaventi fluminis, quod Tulmentum Carni olim dixere".
Originale però è il fatto, come nota anche il Paschini che il "nome primitivo era assai più simile al parlato Tumieç, che non al letterario Tolmezzo.
La prima citazione della località risale infatti al 1158 in un documento nel quale Varnero di Carisacco e Berta sua moglie donavano all'abate di Moggio tutti i beni da loro posseduti "apud Tumech vel alibi in Carnia". Frau riporta una citazione leggermente precedente, del 1149, nella quale il nome sarebbe Tumeh, ed una ancora precedente, attorno al 1000, di "Tomstium" più vicino alla radice latina ricordata dal Palladio ed all'attuale nome italiano, ma anche lui non azzarda una interpretazione, limitandosi ad affermare che il nome è "di origine oscura, probabilmente preromana forse dalla base tul=confine o tèl=terra.
Per quel che ci riguarda, visto l'intendimento di non riprendere approfondite ricerche erudite, ma di ricostruire la vita che nei secoli si svolse a Tolmezzo. Un tanto ci basta per poter dire che quando i Carni abitavano non solo le montagne che portano il loro nome, ma quantomeno tutta l'attuale Regione Friuli-Venezia Giulia, e Trieste ben lungi dall'esserne la capitale, era un "vicus carnorum", e cioè un villaggio dei Carni, come ci ricorda Strabone, Tolmezzo non c'era e, con tutta probabilità, mancava persino il luogo fisico ove sorge attualmente.
Non c'era neppure quando i Romani nella loro espansione al nord verso il Norico e la Pannonia, costituirono la colonia avanzata di Aquileia, nè quando successivamente, proseguendo la conquista, potenziata Aquileia, costituirono un caposaldo più avanzato a Zuglio, arrivandovi da Cavazzo per Caneva e Terzo.
Non c’era ancora, o c’erano soltanto le prime case, senza l’importanza necessaria per entrare in un documento che arrivasse fino a noi, superando i secoli della storia. Come c’erano probabilmente già primi insediamenti sui quali si svilupperanno le sue frazioni. C’era Caneva che nel nome ricorda d’essere stata a quei tempi un emporio commerciale, c’era Terzo, appunto al terzo miglio sulla strada che scendeva da Iulium Carnicum ed Imponzo sul ponte che attraversava il But. Nei terrazzi a mezza costa sulle montagne attorno, coabitavano Celti e Latini come è dimostrato dalla coesistenza di nomi d’origine latina come Fusea o Illegio e celtica come Chiazzaso
Continuava a scorrere il fiume nella piana di Tolmezzo, mentre Zuglio diventava un importante centro romano sulla strada per il Norico, in corrispondenza con Aguntum, l'attuale Lienz, al di là dei passi alpini. Scorreva il fiume e vedeva passare tanti uomini alla ricerca del nuovo, come il giovane sepolto ad Imponzo che lascia traccia della sua esistenza in una lapide scoperta nel 1850 e poi sparita, sulla quale vale la pena di soffermarci:
Laetilio Gallo figlio di Gaio decurione.
Avendo io voluto, giovane desideroso di conoscenza,
vedere la Città, tornando indietro
caddi in preda ad acute febbri
e così gravato persi la gioventù nel fiore.
Poiché ormai un iniquo destino mi chiamava,
portai con me nella crudele morte la barba intonsa,
né potei, infelice, portare a compimento i voti miei.
A causa di una morte precoce ora giaccio in questi luoghi
e la misera madre ha la pena nel cuore:
ogni giorno versa lacrime e si batte le mani sul petto.
Al figlio devotissimo e carissimo,
che visse vent’anni sette mesi e sette giorni,
Letizia Casta figlia di Tito, madre infelice, pose.

Comunque, tornando al racconto su Tolmezzo, che ci fosse o no il paese, anche qui nella conca tolmezzina, si diffuse la religione che avrebbe cambiato la storia del mondo occidentale. E forse fu proprio nello sperone di roccia che sovrasta il borgo di Casanova che si collocò il primo avamposto della nuova religione con una chiesa dedicata al culto di S.Lorenzo. il diacono bruciato a Roma su una graticola il 10 agosto del 258 nella persecuzione dell’imperatore Valeriano.
Prima del cristianesimo si pregava l’indigeno Beleno d’origine celtica. Un Dio collegato sia alla luce (il probabile significato del suo nome è “splendente” sia alle acque medicamentose. Già a quei tempi s’erano scoperti i benefici effetti per la salute delle sorgenti d’acqua pudia, di Arta.
Ma intanto l'erosione del But da un lato e la spinta dei conoidi di deiezione dello Strabut e dell'Amarianna, spostavano di giorno in giorno più avanti il punto di confluenza con il Tagliamento, allargando, alluvione dopo alluvione, la piana che s'andava formando ai piedi dello Strabut.
Scorrevano nel frattempo con i secoli i fatti della grande storia del mondo e dell'Europa, e, nel loro riflesso, i fatti della piccola storia della Carnia.
Su Zuglio costruita con i segni della potenza e della grandezza di Roma, nel momento del massimo splendore, si abbatterono nel 167 d.C. le orde Marcomanne.
Roma mostra le prime difficoltà di fronte alla pressione dei barbari che determineranno la fine dell'Impero, e Zuglio risente della situazione e viene sì ricostruita "ma le nuove costruzioni furono più modeste che le antiche ed erette con i rottami delle anteriori; embrici nuovi non se ne usarono più e la città fu forse coperta di scandole di legno".
Ma intanto Roma aveva completato l’occupazione del Norico. A Lariano (attuale Enns) diventata capitale della regione, era di stanza la II^ legione Italica. Diventava importante il collegamento della Via Iulia Augusta per Monte Croce, ed in conseguenza l’importanza di Zuglio che da vicus era diventato municipium e poi colonia. Seguirono gli anni delle lotte per la successione tra gli imperatori. Nel 238 Aquileia, fedele all’imperatore riconosciuto dal Senato, resistette per 22 giorni all’assalto delle truppe dell’usurpatore Massimino il trace che diventerà il primo imperatore non romano. Durante l’assedio gli “aquileiesi adoperarono per gli archi anche i capelli delle loro donne” (Leicht). Lotte comunque che coinvolsero direttamente o indirettamente anche i territori della Carnia.
Dopo la pace di Costantino, nel 313 e l’assunzione del cristianesimo a religione di Stato, nell'Impero Romano si diffuse in maniera capillare il cristianesimo. E con la cultura di Roma, tra le montagne della Carnia è stata portata l’evangelizzazione cristina.
Che il proselitismo non sia stata facile, non è improbabile, viste le testimonianze della diffusione del culto del Dio Beleno ed il fatto che in montagna si è poco propensi ad abbandonare le tradizioni dei padri. Come coabitarono per un certo periodo Carni a Romani così convissero cristianesimo e paganesimo. Il sincretismo, la capacità del cristianesimo di assorbire trasformandole, anche le forme di culto preesistenti ci consente di partecipare ancora oggi a riti di sicura provenienza precristiana.
La cristianizzazione del territorio, conferma il ruolo di capoluogo per Zuglio che diventa sede vescovile. Nel 490 vi troviamo ricordato già un vescovo di nome Jenuario. Non è dato sapere se sia stato il primo o se ce ne siano stati altri prima di lui, si sa invece che l'ultimo fu Fidenzio fatto traslocare dai Longobardi, agli inizi del 700, nella loro capitale Cividale, segnando l'inizio del declino di Zuglio.


Tolmezzo nel Medioevo.

Venuta meno la capacità dell’Impero Romano di contrastare l’avanzata delle popolazioni barbare che occupavano il centro Europa, i nostri territori diventarono territori di passaggio per le successive invasioni con tutto ciò che significa questo fatto, per chi abitava nella valle del But
Dal passo di Monte Croce a successive ondate erano scesi i barbari che arrivavano dal centro Europa. Prima i Visigoti poi gli Unni di Attila, e quindi gli Ostrogoti.
Nei luoghi della nostra storia, non risulta abbiano lasciato segni. Di questi tempi, Procopio da Cesarea, parlando della Toscana, ma la situazione non doveva essere migliore sulle montagne friulane, dice che "quanti abitavano le zone montagnose facevano una specie di pane con le ghiande macinate. I più venivano colti da malattie di ogni genere e solo pochi sopravvivevano". E' probabile che in questa situazione le preoccupazioni fossero ben altre che quelle di lasciare segni alla storia…
Era in atto un susseguirsi di guerre interne e di invasioni barbariche. Arrivando dalle steppe dell’Asia gli Unni avevano spinto verso l’Italia i Goti. Alarico capo dei Visigoti nel 410 puntò direttamente su Roma e la mise a ferro e fuoco. Ma i Mongoli non si fermarono in Pannonia, Attila con i suoi Unni varcò le Alpi nel 452. Qualche storico sostiene che sia entrato da qualche altro passo, ma il fatto che in Lanza ci sia una grotta che porta il suo nome non esclude che sia entrato da quel passo, come si racconta nella leggenda sulla grotta, riportata in appendice.
Perso il Norico, il confine dell’Impero è di nuovo alle Alpi, si impone una nuova organizzazione della difesa, con il sistema di castelli di allerta, ed assume grande importanza il Castello di S.Lorenzo di fronte a Tolmezzo, che è in ottica con il castello di Artegna, e quindi consente di allertare in tempo gli abitanti della pianura.
Ma ormai la marea dei barbari è inarrestabile. Nel 476 il barbaro Odoacre depone Romolo Augustolo ultimo imperatore d’occidente. Pochi anni dopo, nel 489, scendono ed invadono l’Italia gli Ostrogoti di Teodorico. Ormai tutta l’Europa è occupata da diverse popolazioni barbare, si formano così i regni romano-barbarici crogiolo di varie civiltà all’origine delle diverse nazioni dell’Europa attuale.
L’Impero di Oriente è ancora in vita e riorganizzandosi con Giustiniano si propone la riconquista dell’Italia. Anche il Friuli è interessato da violenti scontri che si concludono con la vittoria dei bizantini, per cui dopo il 535 anche la Carnia e il Friuli conosceranno un periodo di dominazione bizantina.
Passano solo trenta anni e nel 568 arrivano i Longobardi ad occupare stabilmente l’Italia. I nuovi arrivati stabilirono un loro ducato anche in Friuli e vi costituirono la capitale a Cividale. Ma la loro presenza lasciò evidentemente dei segni anche in Carnia, così di fronte alla piana su cui non è sorto ancora Tolmezzo, sul colle santino ad Invillino prende forma il castello di Ibligine la cui posizione dice Paolo Diacono "è assolutamente inespugnabile", e buon per i Longobardi che vi si ritirarono per sfuggire agli Avari che avevano oltrepassato le Alpi nel 612.
Qualcuno sostiene che Ibligine sia da riferirsi a Illegio, ove è più probabile che una guarnigione autosufficiente possa resistere per lungo tempo. Non è da escludere.
Con i Longobardi inizia la decadenza di Zuglio a favore di Cividale. Niccolò Grassi rileggendo la Historia Longobardorum di Paolo Diacono cerca di dimostrare che il Forum Iulii di cui vi si parla è Zuglio e non Cividale, ma si capisce facilmente che si tratta d’una forzatura dovuta dall’amore di paese.
D’altra parte l’importanza di Cividale Longobarda ci viene confermata anche dai monumenti che ci sono rimasti, come il famoso tempietto longobardo, mentre la decadenza di Zuglio è legata probabilmente al fatto che viene abbandonata la via Iulia Augusta, perché al passo di Monte Croce si preferiscono altri passi più a est.
I due secoli dei Friuli longobardo ebbero fine con la vittoria dei Franchi di Carlo Magno nel 774. Re Carlo, riunendo sotto il suo dominio buona parte dell'Europa, ricostituiva il Sacro Romano Impero e se ne proclamava imperatore.
Il ducato longobardo del Friuli divenne marca, importante avamposto nella difesa contro la nuova minaccia degli Avari, con a capo un mark-graf, margravio o conte del confine,
Nel frattempo gli Slavi Carantani insediati nell’attuale Slovenia si allargarono occupando la valle del Fella e probabilmente tutta la Carnia, vista la presenza di toponimi come sclavano o sclavanesco fino a Forni di Sopra.
Dall’899 al 942 si susseguono le invasioni ungariche non a caso rimaste famose come “devastazioni”. Nella successiva ricostruzione si impegnarono e si distinsero soprattutto i patriarchi mettendo così le basi di quello che sarà poi il Patriarcato di Aquileia.
Negli ultimi secoli del primo millennio la storia del Friuli si sposta sull’asse Gemona, Cividale ed Aquilieia. “Fino all’alto Medioevo per raggiungere Tolmezzo si passava per Cavazzo, provenendo dall’omonimo lago, si raggiungeva la località Avons dove si passava il Tagliamento, seguendo quella che era la strada romana per il Passo di Monte Croce Carnico. A partire dal secolo XII il valico di Monte Croce comincia a perdere importanza in quanto si afferma la via che risale il Fella. L’affermarsi di questa strada tiene lontano Tolmezzo e la Carnia dalle lotte che si hanno in Friuli nel secolo XIII. Ne risulterà per Tolmezzo una fase di rallentamento della sviluppo ma anche una relativa sicurezza del territorio” (S. Brollo).
In effetti la Carnia sembra quasi sia uscita dalla storia. E’ diventata un’isola ai margini, per lo spostamento delle vie di comunicazione. In questa marginalità si forma la sua identità. Il territorio è occupato da insediamenti sparsi di proprietari gallo-romani, ai quali si erano uniti quelli degli arimanni longobardi che saranno infine integrati come gismani patriarcali. Una rete di piccoli castelli con i relativi servi della gleba, ad occupare i borghi sottostanti.
Ma anche di tutti questi eventi, ai piedi dello Strabut, non risulta ci siano rimaste tracce. Mentre qualcuno sostiene, al contrario, che alle falde della montagna s’era insediato un arimanno con il suo castello, prima pietra della futura Tolmezzo.
La piana alla confluenza tra But e Tagliamento, a seguito delle frane che scendevano dal monte Strabut, era sicuramente diventata già così estesa da convincere qualche contadino a coltivarla e quindi a costruirvi le prime case, niente ancora che facesse presagire lo sviluppo e l'importanza successiva della cittadina, che anzi non molto lontano, all'imbocco della valle del Fella il patriarca di Aquileia Voldorico I, abate di S.Gallo in Svizzera, consacrava nel 1118 a Moggio la Chiesa dell'Abbazia in onore della SS Vergine e di S.Gallo e ne faceva un centro di giurisdizione ecclesiastica che, si poteva immaginare, avrebbe potuto diventare il centro di riferimento per il controllo anche amministrativo dell'Alto Friuli.
Tant'è che quarant'anni dopo, nel 1158, come si è già ricordato, appare per la prima volta agli onori delle cronache, se non della storia, il nome di Tolmezzo perchè certi Varnero e Berta donavano appunto all'abate di Moggio i beni allodiali da loro posseduti "apud Tumech", presso Tolmezzo. Ci sono già le prime case, c’è un borgo, atteso che alcuni anni dopo nel 1199 Papa Innocenzo III concesse ai monaci di Moggio di poter edificare su terreno di loro proprietà, la cappella dedicata al culto di S.Martino che poi diventerà il duomo.
Nulla tuttavia fa ancora presagire una storia importante per quella località. Nel frattempo però la piana si è notevolmente allargata, spingendo il fiume contro Cavazzo, e appare evidente che il luogo, a ridosso dello Strabut, circondato dal torrente But, ha caratteristiche strategiche interessanti, per la posizione geografica ideale che consente di controllare tutto il territorio carnico. Il paese è il naturale baricentro della Carnia. Per questo il Patriarca vi insedia il suo rappresentante-gastaldo che viene ricordato per la prima volta in un documento del 1212. Per dimora gli viene costruito un castello (od occupa quello che già esiste), se, come risulta, risedendo proprio nel castello il patriarca Greogorio di Montelongo nel 1265 concede la Malga Arvenis ad alcune persone di Avaglio.
Era stato proprio questo Patriarca a capire e l’importanza del luogo. Vi stabilisce infatti, in una data che non ci è riportata “ma grossomodo alla metà del Duecento” (Puppini), il mercato per la Carnia, e alcuni anni dopo, il 12 settembre del 1258 con un suo diploma fonda in effetti la città di Tolmezzo.
Non la fonda dal nulla evidentemente, come s’è detto c’era una costruzione che si poteva chiamare castello, c’erano quindi già delle case, c’era già un villaggio, con una storia che si perde forse nella notte dei tempi. Potrebbe essere la storia d’un borgo alle falde dello Stabut che esisteva già prima dell’arrivo dei romani, come possono far pensare alcuni reperti casualmente venuti alla luce quando si è scavato per far passare l’oleodotto transalpino, o i resti di costruzioni nel terrazzo di Precefic, ma con queste digressioni si scivola nella leggenda.
Comunque “il mercato era uno degli attributi più tipici dello status cittadino e concedere diritti di mercatura ad una località era uno dei modi più usati per promuoverne la funzione di attrazione nei confronti del territorio circostante, una volta alla settimana, il giovedì” (D.Degrassi)
Per tornare alla storia, in qualche modo quella di Tolmezzo nell’Alto Medioevo è metafora della storia dell’Europa nello stesso periodo. Attraversata da fiumi di popoli che l’anno invasa a più riprese, l’Europa che era stata unificata dai Romani si frantumò e dissolse per poi ricostituirsi con Carlo Magno che nella notte di Natale dell’800 veniva incoronato da Papa Leone III, sovrano del Sacro Romano Impero. Si dissolse anche l’Impero Carolingio per ricomporsi con Ottone I come sacro romano impero di nazione germanica, ed il Friuli governato dal Patriarca d’Aquiliea e quindi nella forma del principato religioso, entrò nell’orbita della storia germanica.
Si costituì formalmente il Patriarcato di Aquileia quando nel 1077 il patriarca Sigeardo ottenne in feudo dall’Imperatore Enrico IV il Friuli, l’Istria e la Carniola. Per la necessità di presidiare i passi alpini, il territorio andò acquistando sempre più importanza, e la contea venne affidata dall’Imperatore a patriarchi di origine tedesca.
Il patriarca controllava il territorio attraverso dei suoi funzionari chiamati Gastaldi e già nel 1212, come si è detto, Tolmezzo è ricordata come sede del Gastaldo della Carnia. Non ha tuttavia il controllo di tutto il territorio, perché dipendono direttamente dal Patriarca i Gismani, piccoli feudatari insediati in una ventina di castelli sparsi per la Carnia.
Sono gli anni nei quali la scena politica italiana è occupata prima dal papa Innocenzo III e poi dall’imperatore Federico II di Svevia, gli anni della vita di Francesco d’Assisi (1182-1226).
Economia e società in Carnia erano quelle tipiche del periodo feudale. L’economia agricola si sviluppava all’interno dei singoli feudi, basata soprattutto sul baratto. I servi della gleba sopravvivevano coltivando la parte del feudo loro concessa, e in cambio coltivavano quella del feudatario, che da loro esigeva anche ogni sorta di prestazioni e di balzelli. Si andavano così formando i primi nuclei abitati, le prime cappelle. Con questo termine in Carnia si “vuole indicare un nucleo abitato, un paese in formazione, con una cappellina tra le poche abitazioni. Ben presto sarebbero sorte le “curazie” cioè quei paesi che avevano raggiunto un discreto sviluppo sociale che avevano costruito una chiesa più ampia e disponevano di un reddito più consistente” (Quai)
La modifica del contesto economico e sociale, rispetto a quello romano, aveva modificato anche il sistema di relazioni ed i collegamenti. Spesso veniva abbandonata la viabilità realizzata precedentemente, preferendo percorsi anche meno agevoli. In Carnia, ad esempio, si potrebbe presumere sia stata abbandonata la viabilità per Monte Croce Carnico, privilegiando la viabilità che da Illegio saliva la valle del Cjaròi, per poi attraversare le Alpi carniche ai passi di Meledis o di Lanza.
“I collegamenti tra i diversi villaggi che stavano attorno a Tolmezzo erano molto precari, costituiti per lo più da sentieri e mulattiere, e, per l’attraversamento dei torrenti da semplici guadi o nel migliore dei casi da improvvisate passerelle di legno che venivano portate via ad ogni piena. Gli spostamenti da un villaggio all'altro e tra questi erano piuttosto limitati, la vita di ciascuna comunità era basata su un'economia di pura sussistenza” (Puppini)
Il Patriarca era allo stesso tempo autorità religiosa e civile, subordinato al Papa per il primo aspetto, all’Imperatore per il secondo. Nel primo secolo del nuovo millennio si accese la disputa sulla priorità delle due cariche. Il Papa doveva nominare vescovi quelli che l’imperatore aveva scelto come feudatari, o si dovevano investire dei feudi quelli che il Papa aveva scelto come vescovi? La disputa diede luogo a quella che è rimasta nella storia come lotta per le investiture, i cui riflessi ebbero conseguenze anche sulla storia di Tolmezzo.
Dopo una serie di patriarchi legati all’imperatore e quindi ghibellini, Nel 1251 infatti fu nominato Gregorio di Montelongo, abile stratega e convinto difensore dell’idea guelfa della priorità dell’investitura papale su quella imperiale. Per questo si assunse n il compito di organizzare le difese per contrastare ed opporsi all’Imperatore.
Il rafforzamento di Tolmezzo rientrò quindi nei piani del nuova Patriarca che subito vi istituì il mercato, e nel 1258 concesse il privilegio di costruirsi una casa “a tutti coloro che fossero liberi o servi della Chiesa di Aquilieia o di altre Chiese i quali ottenessero un pezzo di terreno a Tolmezzo”. Ed ancora: “avendo per qualche tempo dimorato nel Castello di Tolmezzo, dilettato della posizione del luogo, decretò che ivi eretto fosse un tribunale”.
La politica del Patriarca Gregorio a favore di Tolmezzo per utilizzare il vantaggio della sua posizione strategica fu ripresa e continuata dal successore Raimondo della Torre, che concesse di ridurre a coltura prati, di costruire molini e folli (macchine ad azione idraulica che obbligarono alla realizzazione della roggia), e nel 1286 di riscuotere dazi per provvedere ad opere di pubblica utilità, e negli stessi anni di fortificarsi e quindi di cingersi di mura. Per questo, sopra l’arco della porta superiore delle mura, era scolpito lo stemma del Patriarca Raimondo.
Importante la concessione di costruire “mulini e folli” perché in quegli anni c’era stata una vera rivoluzione sotto il profilo dell’innovazione tecnologica. “Con il secolo XI la ruota idraulica non venne utilizzata solo per macinare cereali, ma cominciò a muovere congegni di altri opifici, prima applicando alla ruota verticale gli strumenti che giravano con un collegamento diretto all’albero motore (ad esempio la mola e il tornio) poi con l’applicazione della “camma” che trasformava il movimento rotatorio in movimento rettilineo alternato (si potevano così applicare, martelli, pestelli, folloni per battere i tessuti, magli per forgiare il metallo, mantici, seghe ecc.” (F. Bof)
Nel Privilegio citato, per la prima volta si associa al nome di Tolmezzo il termine Terra che sta ad indicare “un abitato di una certa consistenza, a metà strada tra il castello e la città fortificata.. Nello stesso documento Tolmezzo figura elevata ormai al rango di comune” (Puppini). La valorizzazione del luogo è legata anche alla ripresa dell’utilizzo della Via Iulia Augusta. Ad un incontro con il Patriarca fissato ad Avosacco nel 1212 l’arcivescovo di Salisburgo scende da Monte Croce, e dallo stesso passo secondo il Runciman uscirono per raggiungere la Sava i partecipanti alla crociata guidata da Pietro l’Eremita.
La conferma viene dal fatto che in contemporanea con quello di Tolmezzo, il Patriarca valorizzò anche il ruolo del borgo detto Moscardo (l’attuale Paluzza).
Il Duecento e Trecento furono due secoli caratterizzati da profonde trasformazioni economiche e sociali sia in Italia che in Europa. Nel panorama dell’Europa vanno lentamente formandosi ed emergendo quelli che saranno gli attuali Stati nazionali. In Italia nelle principali città si affermano i Comuni, che poi si trasformeranno in Signorie. Genova e Venezia si sviluppano invece come Repubbliche marinare.
In Friuli al contrario residua e resiste lo Stato feudale patriarcale che, con un processo intelligente analogo a quello che in epoca moderna darà vita alle monarchie costituzionali, si trasforma accettando forme di partecipazione al governo del territorio. Si forma un Parlamento che assiste il Patriarca ed a livello locale anche i Gastaldi permetteranno il formarsi dei consigli locali di comunità.
Nascono così anche in Friuli i Comuni ma sono realtà istituzionali differenti da quelle del resto d’Italia. Là erano nate come forme di autonomia amministrativa e quindi come soluzioni di autogoverno che avevano modificato con la forza l’organizzazione del governo, qui nascono d’intesa, come risultato dell’attivismo della borghesia, e della sua solidarietà con il Patriarca, in contrapposizione alla nobiltà.
Questo fatto consentirà al Patriarcato di sopravvivere ancora per altri secoli, portandosi dietro le problematiche dello scontro tra potere temporale e potere spirituale, che erano state caratteristiche dell’Alto Medioevo. Come scrive infatti Puppini “nel corso del Trecento andò aggravandosi la crisi interna dello Stato Patriarcale, insidiato nella sua unità territoriale e politica sia dai nemici esterni che dagli avversari interni del Patriarca” e questa situazione si riflette evidentemente anche sulla storia di Tolmezzo.
Così anche Tolmezzo ha un suo rappresentate nel Parlamento della Patria già dal 1299. Ma è solo con il privilegio del patriarca Giovanni di Moravia del 1392 che viene riconosciuto formalmente con diritto di voto come rappresentante della contrada della Carnia. Anche a Tolmezzo si forma il Comune, ma, come si è già detto, non a seguito d’una rivolta al seguito d’un carroccio come a Milano, ma d’un accordo con il Patriarca che “concede” il costituirsi del Comune, approvando gli Statuti della nuova istituzione. Nel 1403 il patriarca Panciera approvò gli Statuta Comunitatis Terre Tulmetii dei quali si conserva copia al Museo.
Tolmezzo è sede del Gastaldo del Patriarca che risiede nel castello, non potendo per consuetudine risiedere nella “Terra”. Il paese (Terra o Comune) è amministrato dall’Arengo, l’assemblea di tutti i capifamiglia ma soprattutto dal Consiglio originariamente elettivo, ai cui lavori partecipava di diritto anche il Gastaldo, che nominava il capitano della Terra il quale era anche capitano del Quartiere, ed il cameraro massima autorità del Comune, in quanto responsabile delle finanze, del provveditori e dei giudici..
Tolmezzo muove i primi passi della sua storia in un contesto che Leicht così definisce “la storia del Friuli in quei secoli è un seguito continuo di guerricciole, assalti di feudatari contro comuni, di comuni contro castelli, discordie sanguinose, assai di frequente fomentate da pretendenti esterni”.
Da un lato il territorio faceva parte del patriarcato d’Aquileia i cui patriarchi ora venivano nominati dal papa e non dall’imperatore. Ma il conte di Gorizia e del Tirolo erano feudi imperiali e feudo dell’Austria era anche Pordenone, mentre da Treviso contendevano i territori del Patriarcato i conti da Camino, e sugli stessi territori mostrava i suoi interessi anche Venezia. All’interno poi i vari feudatari tra cui in particolare i Torriani e i Savorgnan, finivano sempre per lasciare alle armi la soluzione di ogni loro contesa.
Fortunatamente Tolmezzo vive questa storia un po’ ai margini perché la viabilità di transito si è trasferita sulla valle del Fella e il centro di controllo è diventato Venzone, che, conteso per la sua importanza, più volte passerà dal dominio dei Patriarchi a quello dei Conti di Gorizia. E in questi passaggi direttamente o indirettamente finisce comunque per essere coinvolta anche la Gastaldia della Carnia.
Si vive in Carnia una storia, legata ancora al sistema feudale in un contesto italiano caratterizzato dalla crisi del papato che dal 1305 al 1377 si trasferisce ad Avignone e la fine dell’Impero, che di fatto finiva con l’assumere la fisionomia di uno stato particolare germanico.
Nello stesso tempo, per quanto riguarda lo sviluppo economico e sociale, durante il Trecento si assiste in Italia all’ascesa della borghesia e quindi, come s’è detto, al formarsi degli Stati regionali ed in particolare, per quel che di riflesso riguarda i nostri territori, dalla costituzione della Repubblica di Venezia.
In Friuli invece il secolo è ricordato per il disastroso terremoto e successiva peste del 1348, e dalle vicende legate al patriarca Bertrando di San Genies ed al suo successore Niccolò di Lussemburgo.
Ricordando il terremoto nella sua Cronaca Giovanni Villani riporta che “il castello di Tornezzo (Tolmezzo) e quello di Dorestagno e Destrafitto cadono e rovinarono quasi tutti, ove morì molta gente”. “Si può ritenere che il riferimento fosse non tanto alla rovina del castello patriarcale, posto fuori dall’abitato, bensì ai crolli ed alle distruzioni avvenuti nell’abitato e nelle strutture murarie della cittadina” (Degrassi). Ma ciò che è degno di nota è il programma di ricostruzione messo in atto dal Patriarca con il privilegio del 1356. Già allora la ricostruzione diventa sinonimo di sviluppo. Le case si devono ricostruire con le tegole anziché con le abituali scandole, e per questo si prevede di attivare la fornace di Prelongiades presso Invillino. I tolmezzini vengono esentati dalle tasse e dal servizio militare, sono messe a loro disposizione delle entrate del Patriarca, soprattutto per la ricostruzione delle mura e del castello che deve prevedere anche un ridotto (fortilicium) “in uno degli angoli formati dal recinto, dove la popolazione della cittadina potesse trovare riparo con i propri beni in caso di guerra e di assalto alla mura” (Degrassi). Il tutto per un periodo di otto anni: il tempo che viene stabilito per il programma di ricostruzione!
“La elezione del patriarca Bertrando (1334-1350) si può considerare come una delle date più importanti della storia friulana” (Leicht). Per la sua azione volta a rafforzare il patriarcato s’era inimicato tutti i potentati locali che ordirono una congiura. Fu assassinato a S.Giorgio della Richinvelda mentre rientrava in Friuli da Padova. Il suo successore Nicolò di Lussemburgo uccise tutti i congiurati e distrusse i loro castelli.
Ritenendo coinvolti tutti i feudatari della Carnia a partire dal più importante Ermanno di Luint, come scrive Quintiliano Ermacora, fece abbattere l’intero sistema di rocche e castelli “i castelli in numero di 24, tra quali sono quelli di Tolmezzo, di S.Lorenzo, di Fusea, di Verzegnis, di Invillino, di Socchieve, di Nonta, di Luint, di Sezza, di Sutrio, di Durone, di Siaio, d’Illeggio e di Cavazzo, poi stati essendo questi distrutti la giurisdizione dei popoli relativi venne dai patriarchi conferita alla Comunità di Tolmezzo”.
Come si può intuire facilmente fu questo un fatto importante per lo sviluppo della storia di Tolmezzo. La Comunità era rimasta fedele al Patriarca ed in cambio ottenne il Privilegio del 1356 con il quale il Patriarca riconosceva la Terra come capitale della Carnia.
La fedeltà al Patriarca si doveva dimostrare anche nei fatti e si presentò immediatamente l’occasione due anni dopo, quando i Venzonesi alle dipendenze dei Conti di Gorizia, attaccarono l’abbazia di Moggio. L’abate chiese aiuto ai tolmezzini e questi “raccolta una truppa rispettabile di soldati” mossero su Moggio e costrinsero a ritirarsi i Venzonesi. Fu questo un episodio marginale della ripresa delle ostilità tra il Patriarca e i Conti di Gorizia appoggiati dall’Austria. Ma nella contesa si inserisce il fatto nuovo, del ruolo sempre importante che assume Udine.
Gli udinesi affidarono il comando a Federico Savorganno che sconfisse le truppe del patriarca Filippo d’Alencon guidate da Nicolò di Spilimbergo. Mosse quindi contro Gemona che costrinse alla resa, e poi contro Tolmezzo difesa da tale Cambio, nativo del luogo. Tolmezzo si rivelò inespugnabile, ma una fazione interna, aprì le porte ai nemici dopo aver arrestato a tradimento e consegnato il comandante.
Gli scontri tra udinesi e patriarchini continuarono anche con il patriarca Giovanni di Moravia. Federico di Savorgnan fu assassinato e gli udinesi che davano la colpa ad uomini del Patriarca “si rivolsero ai tolmezzini perché, grazie ai buoni rapporti con il Patriarca intervenissero presso di lui per la punizione dei colpevoli” (Puppini).
Nell’agosto del 1392 il Patriarca soggiornò per alcuni giorni nel castello di Tolmezzo e in quella occasione fece alla Comunità importanti concessioni, fra cui quella del “mero e misto imperio” “cioè il potere di giudicare tutti i delitti, sia nel civile che nel penale in tutta la giurisdizione della Carnia, compreso lo ius gladi, ovvero la potestà di condannare a morte”. Il nove agosto concesse il nuovo stemma una croce bianca in campo azzurro con bordo rosso.
Le concessioni di Giovanni di Moravia sono un riconoscimento del ruolo che Tolmezzo andava assumendo anche sul piano della capacità amministrativa. In quegli anni si stava infatti elaborando il nuovo Statuto..
Ma erano anche gli ultimi anni di vita del Patriarcato. Erano gli anni dello Scisma d’occidente. Nel 1377 il Papa era rientrato a Roma dall’esilio di Avignone, ma ci fu una spaccatura nel collegio cardinalizio tra italiani e francesi e si finì ad eleggere due papi, uno residente a Roma e l’altro ad Avignone. Per risolvere la questione la gran parte dei cardinali si riunì nel Concilio di Pisa, depose i due papi e ne nominò un terzo, ma i primi non si dimisero e si finì così per avere tre papi. Fu convocato un nuovo concilio a Costanza che dopo tre anni (1414-17) riuscì a risolvere la questione con l’intesa su un nuovo papa, Martino V, e le dimissioni degli altri tre.
L’anarchia nella Chiesa divenne anarchia anche nel Patriarcato, il patriarca Panciera fu deposto da Gregorio XII, papa romano perché fedele al papa avignonese. I Comuni friulani si schierarono chi da una parte e chi dall’altra dando origine a continui scontri tra le fazioni. Ma lo scontro si spostò ad un livello superiore, tra l’imperatore Sigismondo d’Ungheria in difesa del Patriarca e Venezia che, con l’appoggio della borghesia friulana, intendeva approfittare della situazione. Tolmezzo rimase fino all’ultimo fedele al Patriarca, ma alla fine “la Carnia e Tolmezzo, tra le ultime ad arrendersi furono costrette a sottomettersi a Venezia, che le accettava con la ducale del 16 luglio 1420 sotto la protezione e governo del Dominio nostro” (Puppini).
Passando sotto il dominio della Repubblica di Venezia, l’anno successivo Tolmezzo si vedeva riconfermato lo Statuto precedente, senza alcuna modifica, e per giunta alla presenza anche dei rappresentati dei quartieri della Carnia a sottolineare il riconoscimento ufficiale del primato di Tolmezzo sulla Carnia.
Come ricorda Pio Paschini si definisce formalmente l’organizzazione, di fatto già in essere, che per i secoli successivi caratterizzerà la Carnia. Una organizzazione articolata su “tre corpi”. Il primo costituito dalla comunità di Tolmezzo e dalle ville da questa dipendenti (Sauris, Sappada, Forni Avoltri, Timau, Cleulis ed Alesso). A Tolmezzo nel castello risiedeva il Gastaldo che rappresentava la maestà del principe. la Terra invece era amministrata da un Consiglio eletto dall’Arengo dei capifamiglia che si riuniva ogni primo gennaio nella chiesa di S.Martino. Il Consiglio nel suo seno nominava ogni anno il Cameraro (amministratore), i Provveditori (assessori) il Capitano del Quartiere e tre Giurati per tutto il circondario, che giudicavano in Tolmezzo assieme al Gastaldo, ma a primavera si spostavano per tenere placito nei singoli quartieri fermandosi in ogni decania.
Il secondo corpo era costituito dai quattro quartieri nei quali era divisa la Carnia. Quello di S.Pietro con 36 ville divise nel 1414 in due raggruppamenti, sopra e sotto Radice. Quello di Gorto con 57 ville, quello di Tolmezzo con quattro Pievi e quello di Socchieve con le tre pievi di Invillino, Socchieve ed Enemonzo. Ogni villa costituiva un Comune nel quale i capifamiglia riuniti in vicinia si autogestivano, eleggendo annualmente un meriga.
La vicinia si riuniva per eleggere ogni anno un capitano del quartiere e dei decani con il compito di raccogliere e versare le decime. “Il quartiere era una federazione di villaggi ed era retto da un consiglio generale composto dai merighi, tra i quali venivano scelti un capitano maggiore ed un certo numero di capitani minori che formavano il consiglio del Quartiere. L’Università della Carnia era composta dai quattro capitani maggiori che avevano il compito di curare in seduta comune gli affari che interessavano l’intera Provincia”. (A.Martini).
Il terzo corpo è costituito dai gismani feudatari, ministeriali obbligati al servizio militare a cavallo con lancia e balestra e quindi gratificati con feudi, sui quali s’erano costruiti dei piccoli castelli. Eleggevano un loro capitano ed erano soliti riunirsi a Caneva di Tolmezzo.
Il fatto che Venezia abbia riconfermato sotto il profilo formale la organizzazione preesistente con il Patriaricato fa sì che di diritto il sistema feudale venga mantenuto fino all’Ottocento, ma di fatto i diritti feudali si erano allentati e “rappresentavano molto spesso un valsente di scarso rilievo, stabilito in pochi pesenali di orzo e di segale o in alcune forme di formaggio … la struttura amministrativa della Carnia aveva come base la comunità degli abitanti dei villaggi, entità con ampia autonomia e indipendenza…l’istituto fondamentale nella vita della comunità era la vicinia, l’assemblea dei capifamiglia” (Furio Bianco).
Nasce in questi secoli la Carnia delle comunità: un sistema di organizzazione del territorio poggiato sulle comunità contadine, che Carducci chiamerà Comuni rustici. L’autonomia dei paesi, anche dei più piccoli, (essendo raro il caso di aggregazioni come ad esempio Formeaso e Zuglio) porta a sviluppare un forte spirito di appartenenza, l’identità di paese come valore, quella che ancora il Carducci chiamerà “rustica virtù”. Ed è ancora il Carducci nella poesia “Il Comune Rustico” scritta nel suo periodo di vacanza ad Arta che in pochi versi, sintetizza, quali erano i compiti per i quali si riuniva “il piccolo senato”:
"Ecco, io parto fra voi quella foresta
D'abeti e pini ove al confin nereggia.
E voi trarrete la mugghiante greggia
E la belante a quelle cime là.
E voi, se l'unno o se lo slavo invade,
Eccovi, o figli, l'aste, ecco le spade,
Morrete per la nostra libertà".

Alla vicinia ed al meriga eletto annualmente spettava il compito di amministrare e quindi “partire” assegnare, le proprietà comuni, i prati e i boschi attorno al paese, e le malghe che spesso la comunità possedeva (Imponzo in Zermula, Fusea in Lanza, Tolmezzo in Chiaula tumieçina), di provvedere all’ordine pubblico all’interno della comunità di organizzare la partecipazione della comunità alla formazione delle cernide.
E’ una organizzazione del tutto originale, rispetto alle situazioni che si determinano in altri luoghi, come anche in Friuli. Non ci sono in Carnia i servi della gleba dipendenti da un signore. Non c’è il sistema che nel tempo si trasformerà nella mezzadria. In Carnia ogni abitante detiene i mezzi della produzione. Spesso sono solo due capre, e un fazzoletto di terra appena bastante a mantenerle, mezzi appena sufficienti a consentirgli la sopravvivenza. Ma non è un proletario, è un piccolo imprenditore faber fortunae suae, anche se l’obiettivo dell’impresa è solo la sopravvivenza. E i mezzi per l’integrazione del reddito sono della Comunità, gestiti quindi in un sistema cooperativo ante litteram.
Da qui il formarsi d’una mentalità, d’una cultura e quindi d’una identità, affermata nel comune sentire di “carnico”, come sottolineatura d’una diversità anche dal friulano.
Da quale fatto storico può essere fatta derivare questa situazione? Forse fu proprio la distruzione dei castelli decisa per vendicare la congiura contro il Patriarca Bertrando, che eliminando di fatto quello che era il sistema delle arimannie, il terzo corpo di cui s’è detto, togliendo quindi di mezzo i signori, consentì ai servi della gleba ed alle comunità da loro formate di affrancarsi attraverso l’acquisto della proprietà della terra.

Tre secoli con la Repubblica di Venezia.

Nei primi anno del dominio veneziano il patriarca Ludovico di Teck tentò di riconquistare la Patria con le armi, si assistette anche al saccheggio di Moggio da parte di truppe ungheresi alleate del Patriarca scese lungo la valle del Fella. Ma alla fine, nel 1445, Venezia definì con il Papa anche giuridicamente la fine de Patriarcato.
In qualche modo anche la comunità di Tolmezzo cercò di approfittare della situazione per aumentare il suo prestigio nei confronti della Carnia. Nel 1449 presentò al Papa Nicolò V° la richiesta del riconoscimento della Pieve come Arcidiaconato della Carnia. Inizialmente il Patriarca si oppose ma nel 1457 Papa Callisto III° aderì alla richiesta.
I primi quaranta anni di dominazione veneziana corrisposero ad un periodo di pace. Ma anche nei momenti di pace per la Carnia non fanno difetto le disgrazie, pur se la rassegnazione con le quali vengono accettate finisce quasi per farle rientrare nella normalità e quindi non degne neppure di memoria. Nella storia di Lovea scritta da don Giuliano De Crignis, si riporta un documento sulla peste del 1439 che indica in due sole le persone superstiti dall’epidemia, nel paese. La peste evidentemente non ha colpito solo Lovea ma si può presumere abbia interessato tutta la Carnia, e la situazione di Lovea ci può dare una idea di come si vivesse in Carnia, pur in un periodo di “pace”.
Per Tolmezzo le emergenze del momento, per le quali si chiese insistentemente l’intervento di Venezia, era il castello che andava in rovina con il tetto scoperchiato, e la Terra con il fossato interrato e quindi inutile. Ci fu una lunga discussione per stabilire a chi dovesse competere l’onere del ripristino, non si sa come sia finita, ma si sa che alla fine si mise mano sia al castello che al fossato.
Forse perché incombeva la minaccia turca.
Erano infatti quelli anche gli anni dell’espansione turca in Europa. Nel 1356 i Turchi avevano superato i Dardanelli. La confederazione di popoli slavi cristiani era stata battuta nella battaglia di Cossovo del 1389, e dopo questo episodio la potenza turca era dilagata con impeto travolgente (Camera-Fabietti). Furono trattenuti per un periodo dalla necessità di doversi difendere a loro volta dall’invasione mongola guidata da Tamerlano, ma appena scomparso il pericolo mongolo, ripresero l’offensiva contro il mondo cristiano. Il 29 maggio 1453, provocando la caduta di Costantinopoli, e la morte dell’ultimo imperatore Costantino XI Paleologo posero fine definitivamente all’Impero romano d’Oriente. Nel 1472 giunsero purtroppo fino in Friuli.
“L’estate del 1472 dovette trascorrere anche per i tolmezzini nella continua trepidazione e paura sotto l’incubo dell’invasione turca che poi si ebbe nell’autunno” (Puppini). La Carnia mise a disposizione seicento uomini armati, che furono schierati “al monte Midea sotto Cormons” 100 operai per rinforzare le opere di difesa a Monfalcone, e tanto fieno. I Turchi arrivando da Lubiana si spinsero fin sotto a Udine e Cividale ma poi il 24 settembre si arrestarono ripassando l’Isonzo.
Con la seconda invasione nella primavera del 1478 i Turchi risalirono la valle di Caporetto per scendere in quella del Fella. Arrestati a Chiusaforte risalirono fino in Lanza dove si scontrarono con le cernide di Paularo che li costrinsero a ripiegare nella valle del Gail attraverso il passo di Ludin. Di fronte al nuovo pericolo si ebbe una mobilitazione straordinaria delle cernide in Carnia arrivando a duemila unità a fronte di 15/20 mila abitanti. A Tolmezzo si decise la costruzione della torre Picotta. La preoccupazione per le invasioni turche restò viva fino al 1499, ma, fortunatamente per la Carnia, i Turchi puntarono sul Pordenonese.
A complicare la vita di questo fine secolo ci furono poi i ripetuti straripamenti del But, la necessità di rinforzare gli argini portò a imporre il dazio anche “su pan vin, et simili cose”. Ma il problema delle alluvioni diventerà una costante per una terra che si è venuta consolidando rubando le ghiaie al fiume.

Il Cinquecento.

Le difficoltà con le quali si era chiuso il Quattrocento si rivelarono nulla rispetto a quelle che caratterizzò l’inizio del secolo successivo.
“Nel periodo 1499-1516 l’Italia fu quasi ininterrottamente teatro di cinque guerre, in questi sedici anni eserciti di 20-30mila unità l’attraversarono da un capo all’altro e furono sperimentate a fondo le nuove tecniche di guerra” (Camera-Fabietti). In queste guerre finì per essere sempre coinvolta Venezia diventata uno dei più importanti Stati italiani e di conseguenza anche i territori appartenenti alla Repubblica, come il Friuli.
Nel 1508 ci fu un primo scontro in Cadore tra Venezia e l’Imperatore che voleva transitare per i territori della Repubblica con l’esercito per scendere a Roma a farsi incoronare.
L’imperatore Massimiliano occupò Pieve e la sua rocca, ma Venezia puntò ad accerchiarlo. Un esercito salì da Belluno con Bartolomeo d’Alviano ed uno costituito da cernide carniche e friulane con tremila uomini salì dal passo della Mauria al comando di Antonio Savorgnano. Lo scontro con le truppe dell’Alviano si ebbe nella piana tra Tai e Valle, mentre il Savorgnano bloccava la ritirata a Lozzo. La battaglia che ne seguì si tradusse in una vera carneficina per gli imperiali, anche perché nel frattempo l’esercito s’era dimezzato per il rientro in Germania dell’Imperatore con parte delle truppe.
Il Savorgnano con i carnici arrivò sul luogo a battaglia conclusa, Malgrado ciò i carnici ottennero comunque l’elogio del Luogotenente. Per una volta onori senza oneri!
Ma il 10 dicembre dello stesso anno il Papa preoccupato per l’espansionismo di Venezia, che, diventata già una grande potenza marittima puntava a rafforzarsi sulla terra ferma, gli organizzò contro la Lega di Cambrai. Riunì in pratica tutta l’Europa contro la Repubblica, che venne anche scomunicata per la pretesa di scegliere il nuovo vescovo di Vicenza, senza il preventivo placet del Papa..
Nella guerra gli imperiali tentarono l’ingresso da Tarvisio, ma furono bloccati dagli uomini della val Fella aiutati dai Venzonesi. Alla fine riuscirono ad entrare dalla parte di Gorizia ed a giungere fin sotto Udine. Ma non ad occuparla però perché “ i difensori con disperata energia respinsero tre volte i nemici e l'ultima, usciti fuori dalle mura, li posero in tale rotta che l'indomani levarono il campo e si ritirarono verso Comons.
La fama della coraggiosa condotta dei friulani si sparse in tutta Italia e canzoni popolari cantarono l'invitta fermezza dei Cividalesi ed il valore eroico di Antonio Bidernuccio e dei suoi compagni di Venzone alle chiuse del Fella che vennero paragonate alle Termopili (Leicht).
Nel maggio dell’anno successivo però Venezia fu pesantemente sconfitta dall’esercito francese di Luigi XII nella battaglia di Agnadello.
I crescenti contrasti tra il papa e il sovrano francese portarono, fortunatamente per Venezia, allo scioglimento della Lega di Cambrai il 24 febbraio 1510. Giulio II ritirata la scomunica a Venezia, si alleò con questa contro i francesi (!).
La Francia rispose convocando a settembre un concilio di vescovi a Tours per affermare l'illegittimità della partecipazione del papa ad una guerra per motivi temporali. Per replicare, l'alleanza veneto-papale venne rafforzata il 20 gennaio 1511 dalla creazione di una Lega Santa anti-francese. Vi confluirono, oltre al Papato e alla Serenissima, la Spagna, l'Impero, l'Inghilterra e i cantoni svizzeri. L'accordo prevedeva la restituzione dei territori veneziani.
Alla morte di Giulio II il 21 febbraio 1513 Venezia rovesciò nuovamente le alleanze unendosi ai francesi, con l'intenzione di cacciare i tedeschi dai propri territori, ed entrò quindi in conflitto con la Lega Santa.
Questa allegra politica di alleanze, scomuniche e concili, si può immaginare quali conseguenze abbia portato in un territorio di confine tra Venezia e l’Impero come era il Friuli.
Nell’estate del 1511 il Friuli era occupato dagli eserciti asburgico e francese(Puppini). Il comandante dell’esercito imperiale accampato a S.Daniele il 23 settembre sollecitò Tolmezzo e la Carnia a fare atto di sottomissione per non venir messe “a ferro e fuoco”. Tolmezzo e la Carnia, riconfermando la propria fedeltà a Venezia, non cedettero, neppure ad un secondo sollecito inviato da Padola dal comandante imperiale il 17 ottobre.
Anzi, in questa circostanza il consigliere Cristoforo Missettini fu addirittura espulso dal Consiglio per aver percorso tutta la Carnia con un trombettiere invitando la popolazione a fare atto di sottomissione all'imperatore. “Il Misettini pagherà con un lungo periodo di emarginazione questa sua iniziativa, considerata dai più inopportuna e disfattista, se non un vero e proprio tradimento nei confronti di Venezia”. (Puppini).
La situazione si aggravò tuttavia nel 1514 perché si era già di fatto sottomesso tutto il Friuli. Il !4 febbraio al suono della campana grande a Tolmezzo si radunò l’Arengo al completo e si decise di prestare obbedienza “per evitare la rovina della Gastaldia e della Contrada, non prima però d’aver sentito il parere dei capitani dei Quartieri”. Pare che i capitani non siano mai riusciti ad arrivare con il loro parere. E, nel frattempo, si era risolta la questione perchè Venezia aveva ripreso il controllo ed alla fine di marzo aveva rioccupato tutto il Friuli.
Non bastava la guerra! Il 1511 è ricordato in Friuli come l’anno della “zobia grassa”.
Esplose infatti il 27 febbraio giorno di giovedì grasso la rivalità a lungo covata tra le fazioni degli Zamberlani (filoveneti) e degli Strumieri (filoimnperiali) “una folla di popolani e villici del contado sotto il comando di Antonio Savorgnan (capo degli Zamberlani) accorse a Udine e, col pretesto di difendere la città minacciata dall’esercito imperiale, diede l’assalto ai Palazzi della nobiltà feudataria e cittadina” (Puppini).
Era il momento culminate d’una rivolta che covava da anni. La protesta dei contadini contro i proprietari che imponevano balzelli resi insostenibili anche a causa delle carestie, si saldò con il conflitto tra i nobili filoimperiali che dopo la sconfitta di Agnadello, speravano nella fine della Repubblica. A questo si aggiunse la politica spregiudicata del Savorgnan che cercava di approfittare della situazione per imporre il predominio della sua famiglia .
Il carnevale si tramutò in una carneficina con i popolani in maschera con i vestiti rubati ai nobili, nella città illuminata dal bagliore degli incendi delle principali case nobiliari a partire dai Torriani. “In una scenografia spettrale e sinistra, tra i bagliori degli incendi, i lamenti delle vittime, le urla aggressive e derisorie dei rivoltosi, iniziarono i massacri, narrati con macabro compiacimento da Gregorio Amaseo nella sua Historia” (Bianco) . Dalla città la rivolta si propagò per le campagne, vennero assaliti e distrutti dagli abitanti del luogo tutti i numerosi castelli a nord di Udine ed anche a Gemona e Tolmezzo furono saccheggiate le case della nobiltà castellana.
Ma non era ancora finita! “Mentre l’opera di repressione, che era moltiplicata dalla paura provata e dall’odio e dallo spirito di rappresaglia, come esempio salutare affinché ciò non avesse più a ripetersi, continuava in tutta la Patria, ed era normale al passante vedere penzolare da qualche ramo il corpo dilaniato dai rapaci di qualche contadino, un grande terremoto colpì il Friuli” (Maniaco-Montanari). Alle ore 20 del 26 marzo si produsse un sisma disastroso probabilmente del 9° grado della scala Mercalli. Distrusse Gemona ove ci furono molti morti, colpì gravemente anche Udine dove crollò il Castello. Gravi danni si ebbero anche a Tolmezzo dove crollò una chiesa e molti edifici restarono lesionati. Ci furono evidentemente molti morti in tutto il Friuli, ma nel contesto che s’è vito i morti non facevano certo notizia!
Intanto il Savorgnan resosi conto che avrebbe finito per essere sacrificato alla ragion di Stato visto, l’interesse di Venezia a riappacificarsi con la nobiltà friulana, fuggì in Austria a far da consulente agli imperiali. Ma a quei tempi, alla giustizia dei Tribunali si sostituiva spesso la vendetta privata e il 7 marzo 1512 gli fu spaccata la testa fuori dal cimitero di Villaco, dai suoi nemici friulani giunti sin là per saldare i conti..
E per completare il quadro della desolazione, “la spada della divina giustizia” come dice un cronista del tempo, a giugno, mentre si era intenti alla ricostruzione, fece scoppiare la peste che si protrasse fino all’autunno seguita da una terribile carestia.
A Tolmezzo quelli che si salvarono eressero un altare a S.Rocco e S.Sebastiano nella Chiesa di S.Martino, non paghi, per la dimensione dello scampato pericolo, diedero inizio alla costruzione di una nuova chiesa intitolata a S.Maria di Centa, pure con un altare a S.Rocco e San Sebastiano. La costruzione della chiesa veniva a coincidere con gli impegni della ricostruzione delle opere pubbliche e delle abitazioni private e quindi i lavori si protrassero a lungo e la Chiesa fu consacrata soltanto nel 1547.
Nel frattempo in Europa, Carlo V era finito per ereditare nello stesso tempo i domini degli Asburgo, i Paesi Bassi e il Regno di Spagna con annessa l’Italia del Sud. Questa enorme concentrazione di potere indusse il re di Francia Francesco I a muovere una guerra preventiva, e purtroppo l’Italia divenne il campo di battaglia di questo confronto europeo. Fortunatamente i territori dell’Alto Friuli furono interessati solo dal passaggio delle truppe nel Canal del ferro .
Si temevano i saccheggi anche in Carnia ma per fortuna il danno si ridusse all’impegno ad infornare molto pane per provvedere al sostentamento delle truppe. Dopo lo scompiglio determinato da questo episodio si ebbe un lungo periodo di tranquillità per Tolmezzo e per la Carnia. E, finalmente, anche di relativa prosperità “dovuta più che alla generosità della terra, all’ingegno e all’intraprendenza” (Puppini), ha inizio l’emigrazione dei “cramars” si inizia così ad integrare i redditi derivanti dall’agricoltura con quelli del commercio, cercando di sfruttare la collocazione geografica di ponte tra Venezia e l’Europa centrale.
Tolmezzo divenne un emporio commerciale “nel capoluogo si concentrava il maggior numero di contrattazioni economiche connesse con l’emigrazione. Mercanti di Udine e più spesso di Venezia rifornivano i negozianti carnici delle merci da vendere all’estero. Piccoli e grandi merciai provenienti da tutte le vallate della Provincia confluivano nei magazzini di Tolmezzo per rifornirsi di tutti quei prodotti che, arrivati alla città lagunare, avrebbero finalmente provveduto a collocare sui mercati dell’Europa centrale” (A.Fornasin).
Di conseguenza si registrò l’arrivo a Tolmezzo di nuovi personaggi e di nuove famiglie impegnate nel nuovo lavoro. Attività evidentemente redditizia che consentirono ai nuovi arrivati, come i Camucio, di diventare in breve una delle casate di maggior rilievo nella vita sociale della Terra.
Sulle condizioni della Contrada della Carnia nel periodo i Luogotenenti, sottolineando la povertà della terra, segnalano che “le genti si procacciano il vitto per di più fuori del paese con diverse arti”. Il Palladio segnala che “coll’agricoltura congiungono la mercatura, colla quale a costo di gravi fatiche acquistano gli alimenti per l’ultima vecchiezza”. Quintiliano Ermacora sottolinea che “non sono popoli di natura codarda e stupida, come certuni falsamente suppongono, ma il fatto li dimostra invece di svegliato e sagace ingegno…emigrano essi l’inverno e travagliano giorno e notte …onde procacciarsi sussidi alla loro vecchiaia”.
Nella Descrittione della Cargna del 1565 Giacomo Valvason di Maniago conferma che Tolmezzo “al presente è metropoli di tutta la Carnia, abitata da persone civili e di acuto intelletto…il castello in gran parte è ruinato, e anche la piccola rocca sopra l’alto monte vedesi derelitta …ma Venezia vende questa gastaldia per duemila e più ducati l’anno…ci sono 950 anime…le ville del paese tra grandi e piccole 163 nelle quali si trovano fino a 24.000 anime”.

Erano anni di profonde trasformazioni a livello mondiale. Nel 1492 Cristoforo Colombo aveva scoperto l’America, s’aprivano nuove prospettive per i traffici marittimi mentre nel Mediterraneo si rafforzavano le potenze ottomane e spagnola, Venezia decise, o fu costretta, ad una politica di neutralità, anche perché nella società veneziana erano ormai in crescita i settori dell’industria e dell’agricoltura a danno del commercio e della cantieristica.
Erano gli anni che vanno sotto il nome di Rinascimento. Il periodo storico viene datato convenzionalmente con la scoperta dell’America ma è un movimento culturale e sociale che si sviluppa in forme e momenti diversi nelle varie situazioni. E’ caratterizzato dall’affermarsi d’una nuova visione della vita e dell’uomo, sintetizzata nell’idea dell’uomo “faber fortunae suae”. Una riscoperta dell’individuo visto come soggetto unico in tutto il creato, in grado di autodeterminarsi, di vincere la sorte, alla scoperta del piacere di vivere. Un idea in aperta rottura con quella che aveva dominato la società medioevale.
“ I due più illustri personaggi di quello che senza retorica nel suo piccolo possiamo chiamare il Rinascimento tolmezzino sono il poeta Gerolamo Biancone e lo storiografo Quintiliano Ermacora” (Puppini). Nomi che vanno ad aggiungersi a quello dell’intagliatore Domenico Mioni ed al pittore Gianfrancesco Del Zotto.
Per quanto riguarda la politica locale, Venezia subentrando ai Patriarchi s’era impegnata in Carnia a non modificare i precedenti usi e consuetudini che risalivano al privilegio concesso dal Patriarca Giovanni di Moravia. Ma quando nel 1587 decise di porre mano ad un piano di riordino dell’amminstrazione si rese conto che la situazione a Tolmezzo ed in Carnia era completamente degenerata.
Sul presupposto giuridico che i benefici venivano concessi dal Gastaldo una casta locale aveva finito addirittura per arrivare a nominare come Gastaldo il povero trombettiere che aveva il compito di pubblicizzare i proclami pubblici. (Già allora era invalso il sistema dei prestanome!)
Per far quadrare le entrate che si dovevano alla Dominante si arrivò a falsificare la misura ufficiale, il “conzo” del vino venduto nelle osterie. Si spostavano così sul vino le tasse che avrebbero dovuto gravare sugli immobili in godimento. I tolmezzini furono poi così abili a difendere i loro privilegi che l’avvocato Massarino che aveva denunciato la situazione di illegalità corse il rischio di finire incriminato e comunque nel giudizio finale al ballottaggio finì per averla vinta la cricca di Tolmezzo.
In analogia “durante il 500 si venne progressivamente modificando la natura del Consiglio che da espressione diretta della volontà popolare finì col diventare un organismo oligarchico nelle mani di una ristretta cerchia di famiglie”(Puppini). La trasformazione si realizzo in un breve lasso di tempo. Nel 1558 per la prima volta non ci fu la rotazione dei consiglieri ma vennero confermati quelli dell’anno precedente e dal 1580 si ha, di fatto, la conversione in diritto a vita della carica di consigliere, con l’attribuzione agli stessi del titolo di “dominus”. Si è così costituita una piccola nobiltà locale che controlla l’amministrazione della terra, portando l’Arengo ad un ruolo solo formale e di ratifica, tant’è che alle sue adunanze partecipano sempre meno i capifamiglia aventi diritto.
Sul finire del secolo riesplose il conflitto Tra Tolmezzo e le due comunità di Gemona e Venzone per il niderlech (la sosta obbligata di un giorno ed una notte delle merci in transito) che queste esigevano per tutti i beni diretti in Carnia. Non riuscendo a spuntarla sul piano del diritto, a Tolmezzo si pensò anche ad una viabilità alternativa attraverso il lago di Cavazzo, ma alla fine non se ne fece nulla. (Puppini)
“Verso la metà del secolo si fecero sentire anche in Carnia i fermenti provocati dalla riforma luterana” (Puppini). Il travaso delle nuove idee era favorito dall’emigrazione dei cramars in Germania, e dal fatto che anche a livello locale si riscontravano i fenomeni di crisi della Chiesa.
Nel 1521 veniva scomunicato Lutero per eresia. Nel 1528
invece fu scomunicata per due anni l’intera comunità di Tolmezzo, per una questione molto poco religiosa e cioè per un credito non riconosciuto al Parroco Andrea Missettini dal cameraro del Pio Ospedale e dal Consiglio. Come s’è già visto anche nei rapporti del Papa con Venezia, non si lesinavano al tempo le scomuniche. Il Pievano Gian Antonio Flumiani diventato arcidiacono della Carnia a 14 anni, per la rinuncia dello zio, venne scomunicato nel ’53 dall’abate di Moggio perché si rifiutava di versargli il censo. Nel 1545 ci fu poi lo scandalo del cappellano Vittor Janis che “andava rivelando i segreti che riceveva in confessione, tramando e combinando adulteri, togliendo l’onore alle case e svilendo il sacramento”.
Nel 1570 Matteo Bruno veniva denunciato al Sant’Ufficio di Venezia dal prete Vincenzo Janis un prete tolmezzino già condannato a sanzioni ecclesiastiche per usura, vita secolarizzata e cattiva condotta. Il Bruno, arrestato restò in carcere per 10 mesi e poi abiurò. Era solo uno dei tanti carnici, per lo più cramars, perseguitati dall’Inquisizione. La sorte peggiore toccò a Daniele Dionisio di Vinaio giustiziato alla fine del 1588.
Il clima che si respirava a Tolmezzo ed in Carnia nella seconda metà del XVI secolo a seguito del Concilio di Trento (1545-63) era piuttosto pesante e le interferenze ed il controllo esercitato dalla Chiesa perfino sulla vita privata delle famiglie e sui comportamenti quotidiani dei singoli era assoluto ed asfissiante, fin quasi all’oppressione. Non andare a Messa non ricevere i sacramenti, non rispettare il precetto del digiuno che in un modo e nell’altro si estendeva a circa 150 giorni dell’anno e vietava in certi giorni anche i condimenti ed i latticini era molto rischioso” (Puppini). Come era pericoloso bestemmiare, stante anche l’invito alle denunce segrete, per le quali nelle chiese erano predisposte delle apposite cassette e c’era l’impegno a garantire l’anonimato e a riconoscere al denunciante la metà della pena pecuniaria prevista.
La storia dell’Europa continua ad essere caratterizzata dal confronto per l’egemonia tra gli Stati, mentre l’Italia è diventata solo oggetto di queste egemonia. Fortunatamente la contesa riguarda le altre Regioni, Venezia riesce a starne fuori e quindi anche il Friuli non è interessato direttamente dalla guerra.
L’allarme per la crescente potenza degli Asburgo che aveva portato alla costituzione della Lega di Cambrai, portò alla costituzione della Lega di Cognac, promossa dal papa Clemente VII e siglata dal sovrano francese insieme alle repubbliche di Venezia e Firenze. Un'alleanza fragile che non fu in grado di evitare il terribile sacco di Roma del maggio 1527, episodio che suscitò orrore e costernazione in tutto il mondo cattolico: i Lanzichenecchi, soldati imperiali di origine prevalentemente tedesca e fede luterana, misero sotto assedio la Città Eterna, che fu espugnata e saccheggiata per giorni. Il papa, asserragliato in Castel Sant'Angelo, fu costretto alla pace con l'imperatore, dal quale ottenne la restaurazione dei Medici a Firenze, dove si era costituita una repubblica (1527-1530). Il 5 agosto 1529 venne stipulata la pace di Cambrai, con la quale la Francia rinunciava alle mire sull'Italia mentre la Spagna vedeva riconosciuto il possesso di Napoli e Milano.
L'equilibrio fu nuovamente infranto nel 1542, con l'inizio di una nuova fase di conflitti franco-spagnoli in territorio italiano. Gli scontri ebbero esiti alterni, sanciti da deboli trattati di pace (come la pace di Crépy del 1544) e continuarono anche dopo la morte di Francesco I e l'ascesa al trono del suo successore Enrico II nel 1547. Ma lo scenario internazionale mutò di colpo nel 1556, quando Carlo V si ritirò in convento in Spagna.
Furono proprio gli eredi a stipulare nel 1559 la pace di Cateau-Cambrésis, che mise fine definitivamente allo scontro tra Francia e Spagna per l'egemonia europea. La Spagna consolidò la propria posizione di dominio in Italia, destinata a durare fino al 1714, anno della conclusione della guerra di Successione spagnola e dell'avvento dell'Austria come potenza egemone sulla penisola. La pace chiuse un sessantennio di guerre continue e sancì la fine della libertà italiana, un processo che si era avviato già con la spedizione di Carlo VIII nel 1494.
Venezia fu tuttavia ancora impegnata, come diretta interessata, nella guerra della Lega Santa promossa dal Papa Pio V, per contrastare l’avanzata turca. Guerra che era iniziata per portare aiuto ai veneziani assediati a Famagosta nell’isola di Cipro, e che si concluse con la famosa battaglia navale di Lepanto il 7 ottobre 1571.
Che ci fossero anche dei carnici sulle galere veneziane è molto probabile. La minaccia dei turchi restò comunque come una spada di Damocle sull’Europa ancora per molti anni. Nel 1526 avevano assediato Vienna una prima volta e ci hanno riprovato nel 1683. L’ Ungheria era il campo di battaglia e l’esercito imperiale era integrato da milizie e tecnici italiani. Il pordenonese frate Marco d’Aviano con il suo carisma in appoggio all’imperatore Leopoldo I° diede un contributo determinante per la vittoria dei cristiani contro la minaccia dell’Islam.
In questo contesto può inquadrarsi la presenza in Austria di Giovanni Battista Pittoni da Imponzo che nel 1678 riceve il titolo nobiliare di Barone di Von Dannenfeld per “meriti politici, camerali e militari”. Quattro anni prima era stato insignito del titolo di Barone anche Tommaso Calice da Paularo. Anche per la contiguità territoriale, si può quindi pensare che, pure dalla Carnia, come da altre zone d’Italia, siano partiti dei capitani di ventura e che in quegli anni ci fosse in essere un’altra forma di emigrazione carnica, l’emigrazione dei tecnici e dei militari al soldo di questi capitani a difesa dell’Europa e della cristianità minacciata dall’invasione turca.

Il Seicento.

Come s’è detto, con la pace di Cateau-Cambresis veniva ratificata l'egemonia spagnola in Italia. La Spagna esercitò da allora, e per oltre un secolo e mezzo, il dominio diretto su tutta l'Italia meridionale ed insulare, sul Ducato di Milano e sullo Stato dei Presidii nel sud della Toscana. Lo Stato della Chiesa, il Granducato di Toscana, la Repubblica di Genova ed altri stati minori furono costretti di fatto ad appoggiare la politica imperiale spagnola. Il Ducato di Savoia, costretto a convertirsi in ago della bilancia fra Francia e Spagna divenne nella realtà dei fatti un campo di battaglia fra queste due potenze. Solo la Repubblica Veneta riuscì a conservare una relativa indipendenza che però non fu sufficiente a preservarla da una lenta ma inesorabile decadenza.
Decadenza che si riflette anche sul Friuli, come viene confermato dai dati demografici: la popolazione che nel 1561 era di 250.000 abitanti era scesa nel 1602 a 92.000!
Erano finite le guerre ma “a partire dalla fine del Seicento e per tutto il secolo seguente la vita dei carnici e dei tolmezzini fu dominata dalla preoccupazione della peste nelle forme della bubbonica, pneumonica e tifo petecchiale” (Puppini). Tra le altre nel 1629 arriva anche in Carnia la peste bubbonica che costituisce il contesto nel quale si svolge il romanzo I Promessi Sposi del Manzoni, a Tolmezzo si contano 59 morti. Ma ci sono anche epidemie localizzate come quella che nel 1658 decimò gli abitanti della villa di Fusea. Venne quindi organizzata anche una rigorosa custodia dei passi e dei confini, chiusi con sbarre (rastelli) per poter controllare che vi transitassero solo persone provviste della “fede di sanità” Le cronache amministrative del tempo sono di conseguenza occupate dai provvedimenti di ordine sanitario o contro i foresti che possono importare malattie, e questo porta le comunità a chiudersi ancora di più attorno al proprio campanile.
Per Venezia, la Carnia è poco più che una colonia, dalla quale ricavare il legname per il proprio arsenale. Vengono banditi, e quindi vietati all’uso locale, i migliori boschi. Nel 1582 “ai carnici fu levato l’uso di quarantasette boschi ed applicati alla Casa dell’Arsenale, con obbligo anche di custodirli, che gli ha portato grandissimo e incredibile danno”.
La colonia è di confine e quindi le viene imposto di provvedere alla difesa dei confini. Ogni villa, come si è detto, deve contribuire alla costituzione delle cernide, squadre di pronto intervento che ogni anno a Tolmezzo dovevano riunirsi per la “mostra grande”, la parata generale che si teneva nei prati ove ora sorgono le carceri. Il poco impegno che ci mettevano i carnici nel prepararsi alla difesa dei confini, viene testimoniato dal luogotenente Antonio Grimani che nella parata del 1610 è costretto a rilevare che “li moschetti e li archibugi, sono tutti guasti abbandonati dalli soldati sotto pretesto che vadino in Allemagna a vender qua e là”.
Il tira e molla iniziato con Venezia già nel 1587, per la furbizia dei tolmezzini nel difendere i privilegi della cricca, si protrasse fino al 1623 quando Venezia fu costretta a inviare il luogotenente Domenico Ruzzini a mettere ordine nell’amministrazione della terra. Gli “ordini sindacali” ossia le disposizioni con le quali si conclude la visita danno l’idea di una situazione di sopruso, diventato ormai regola, dei nobili nei confronti dei poveri, e, sul piano amministrativo, del Consiglio nei confronti dell’Arengo. Alla fine del Cinquecento era stata introdotta una importante modifica nell’organizzazione amministrativa con l’istituzione dei sindaci, ossia di tre persone che elette dall’Arengo avrebbero potuto partecipare ai lavori del Consiglio per controllare l’attività degli amministratori. L’innovazione avrebbe dovuto consentire una maggiore partecipazione popolare. Ma per anni i sindaci non furono neppure nominati, mentre i camerari non rendevano i conti, e sul territorio erano entrati in uso sistemi di strozzinaggio con i quali si approfittava delle difficoltà economiche dei più poveri.
Ma la situazione non dovette cambiare di molto, anche con l’intervento del Ruzzini, se nel 1681 il luogotenente Francesco Diedo fu costretto a prendere di nuovo posizione contro le diffuse forme di abuso nell’amministrazione pubblica e in materia di pignoramento dei beni per debiti (Puppini).
Venezia non aveva molto tempo per occuparsi della Carnia impegnata come era nella guerra contro i Turchi che va sotto il nome di guerra di Candia (1645-1669), e si concluse per Repubblica con la perdita dell’isola di Creta. Ma, purtroppo, anche questa guerra finì per avere un riscontro in chiave locale, anche se non di carattere militare. Per finanziarla il Senato aveva anche previsto di istituire alcune contee e di venderle con i relativi titoli di conte. Fra queste c’era quella della Cargna e di Tolmezzo ottenuta per la trasformazione della gastaldia in contea. Soluzione intelligente, anche per porre fine alla mancanza di prestigio e di potere in cui era finito il gastaldo, di cui si è già detto.
La gara fu vinta in associazione tra i Manin e Antonini di Udine e i Pianesi e Camozzini di Tolmezzo. Il fatto che fossero in quattro fa pensare che si ritenesse di poter avere un conte per ogni quartiere. Furono investiti il 27 novembre del 1647. Ma iniziarono subito le proteste dei tolmezzini. Non era oltretutto tollerabile che due componenti del Consiglio come i Pianesi e Camuzio fossero diventati conti. Nel 1653 Venezia, aderendo alle richieste locali, dovette sopprimere la contea, lasciando i titoli di conte già conferiti a titolo onorifico.
Negli stessi anni Tolmezzo si attivò per ottenere le reliquie di S.Ilario scoperte nelle catacombe di S.Ciriaca a Roma nel 1654. Portate a Tolmezzo nella chiesetta di S.Maria della Strada furono traslate in duomo il 16 agosto del 1667 “con una cerimonia che per la sua grandiosità sarebbe stata ricordata a lungo dai tolmezzini e dai carnici. Stando poi al cronista, il giorno stesso della solenne processione, il santo fece avere la vista ad una povera cieca che viveva in S.Caterina” (Puppini), confermando così la devozione dei carnici nel nuovo santo protettore.
Su come si vivesse la fede al tempo, è giusto ricordare che in quegli anni ha il periodo di massimo sviluppo il santuario della Madonna di Trava. E’ famoso perché vi si compie il miracolo della resurrezione dei bambini che per essere nati morti e non aver ricevuto il battesimo non possono entrare in Paradiso. Nella piccola chiesa sopra Trava di Lauco riprendono a vivere per un attimo, il tempo di ricevere il battesimo. Così è continuo il pellegrinaggio delle mamme che da ogni parte del Friuli, si incamminano con i loro cadaverini verso il santuario.
Il 16 agosto del 1692 sarà invece ricordato per un autentico diluvio, che a distanza di 80 anni il Grassi così rievoca: “Due giorni e due notti continue fu tanta e si furiosa pioggia che pareva fossero aperte le cateratte del cielo, e gli abissi della terra. Scaturirono fonti dove pria non erano, e col tuonare tremò la terra perlochè entrò spavento tale negli uomini, che molti cedettero essere arrivata la fine del mondo”. Al di là della ricostruzione colorita del Grassi da altre fonti si sa di case crollate in vari paesi della Carnia con 58 morti nella sola Priuso. Il But ruppe gli argini sia a Tolmezzo che a Caneva allagando i due centri abitati.
Nel 1626 finalmente si era riusciti a costruire un ponte stabile in legno sul But che sostituiva la precedente passerella. Non se ne parla nei resoconti dell’alluvione probabilmente perché si dà per scontata la sua asportazione a seguito della “brentana”, così si chiamava la piena, del fiume...
Secondo il Grassi fu proprio in questo anno, chiamato anche l’anno del diluvio che si ruppe la diga naturale che aveva formato il lago di Soandri. A suo dire nell’XI secolo una frana staccatasi dal monte Cucco in Alzeri aveva dato origine ad un lago che arrivava fin sopra l’attuale Sutrio. Rompendosi l’argine fu inondata tutta la valle e in particolare l’acqua “quasi tutta sommerse la città del nostro Giulio”. E sommerse anche gli edifici che in un primo momento aveva messo in vista, spazzando via quanto il tempo vi aveva depositato sopra. I curiosi che controllavano l’evolversi dell’alluvione, sempre a suo dire, avrebbero visto i resti della Basilica cristiana, ed in particolare la campana della stessa Chiesa.
Ma come si è detto anche il Grassi mentre raccoglie le sue “Notizie storiche della Provincia della Carnia” si lascia prendere dalla fantasia e dal campanilismo.


Il Settecento.

Il 1º novembre 1700 morì Carlo II di Spagna, da tempo malato. La maggior parte delle dinastie regnanti al momento vantava parentele con l'illustre moribondo ed erano interessate al trono di Spagna, che sarebbe rimasto vacante con la sua morte. Cinque giorni dopo la morte, per disposizione testamentaria del defunto re, veniva proclamato nuovo re di Spagna il duca Filippo d'Angiò, nipote del re di Francia Luigi XIV, il quale assumeva il nome di Filippo V. Inghilterra, Austria e Paesi Bassi, intenzionate a impedire che la Spagna passasse sotto l'influenza francese (sarebbe stato infatti molto difficile fronteggiare un'unica sovranità borbonica da entrambe le parti dei Pirenei), strinsero la cosiddetta alleanza dell'Aja (7 settembre 1701), con la quale si impegnavano ad impedire che le volontà testamentarie del defunto re di Spagna trovassero definitiva attuazione. Diedero così inizio alla guerra di successione spagnola, che si combatté per ben dodici anni e coinvolse anche i possedimenti spagnoli in Italia.
La guerra si concluse con la Pace di Utrecht (1713), che sancì la fine della dominazione spagnola in Italia e l'inizio di quella austriaca. Infatti come conseguenza della Guerra di successione spagnola (1701–1714) Filippo di Borbone fu riconosciuto re di Spagna, ma il regno perse, con il trattato di Utrecht i suoi possedimenti in Italia. Il ducato di Milano, il regno di Napoli e quello di Sardegna finirono alla casa degli Asburgo, mentre il regno di Sicilia dovette essere assegnato alla casa di Savoia, regnante il duca Vittorio Amedeo II, che nell'occasione diventa re. In questo modo era iniziata la dominazione austriaca in Italia, che si protrarrà fino al 1866 con l’intervallo dell’occupazione napoleonica.
Fortunatamente Venezia era rimasta ai margini di queste contese e quindi anche i nostri territori riuscirono a godere di un secolo di pace.
Ma il Settecento in Europa al di là delle vicende belliche citate, viene ricordato come “il tempo delle rivoluzioni” (Garracino-Ortoleva-Revelli). In Inghilterra ha inizio già nella prima metà del secolo la rivoluzione industriale: la meccanizzazione dei processi di produzione con l’introduzione delle prime macchine a vapore e la trasformazione dell’agricoltura in un sistema di tipo capitalistico, danno origine al nuovo proletariato industriale urbano, e provocano una profonda trasformazione nella società inglese.
In America i nuovi stati rompono il rapporto di dipendenza coloniale dall’Inghilterra e nel 1776 promuovono la Dichiarazione d’Indipendenza. La guerra di secessione si chiuse con la pace di Versailles del 1783 nella quale si sancì l’indipendenza degli Stati Uniti d’America.
Negli stessi anni la Francia caratterizzata ancora da un sistema sociale di tipo feudale, entra in grave difficoltà per la lunga crisi agricola degli anni ’70, i contadini chiedono l’eliminazione di rapporti di vassallaggio che è sempre più impossibile rispettare, la nobiltà reagisce al contrario chiudendosi in una ottusa richiesta del rafforzamento del sistema dei privilegi.
Luigi XVI salito al trono nel 74 nel tentativo di arginare la protesta popolare riconosce al Terzo stato una rappresentanza pari a quella della nobiltà e del clero. Ma durante la convocazione degli Stati Generali, nel giugno del 1789, il Terzo Stato si proclama Assemblea Nazionale, il 14 luglio con la presa della Bastiglia, ha di fatto inizio la rivoluzione.
Nel suo piccolo “si licet parva componete magnis”, anche Tolmezzo vive entrambe le rivoluzioni seppure in maniera meno violenta. Nella prima metà del secolo Jacopo Linussio introduce una vera rivoluzione industriale realizzando in soli trenta anni un sistema produttivo che per la sua dimensione, diffusione ed articolazione modifica evidentemente il quadro economico e sociale di Tolmezzo e della Carnia. Nello stesso tempo si assiste a Tolmezzo ad una rivincita dell’Arengo nei confronti del Consiglio che in qualche modo ricorda quella del Terzo Stato in Francia.
Riguardo all’organizzazione politico amministrativa, come si è già visto si era nel tempo creata una frattura tra l’Arengo, partecipato da tutti i capifamiglia, ma ridotto a un ruolo di mera ratifica, e il Consiglio che da elettivo era diventato un organismo che si autoperpetuava per cooptazione e i cui rappresentanti si erano proclamati nobili “dominus”. Di converso l’Arengo era finito per avere soltanto delle funzioni di ratifica per cui veniva meno l’interesse dei capifamiglia a parteciparvi e registrava un consistente assenteismo..
“Gli screzi ebbero un temporaneo scioglimento nell’accordo seguito in Udine addì 8 aprile 1752” (G.Gortani). Si convenne di attribuire ai tre Sindaci del Popolo, che già venivano nominati dalla fine del Cinquecento, il compito di controllare la resa dei conto che il Cameraro doveva rendere ogni fine anno. Ma il problema era politico. Come scrive Puppini “verso la fine degli anni sessanta principiò un conflitto istituzionale tra il magnifico Consiglio da una parte e i Sindaci e l’Arengo dall’altra, che in breve tempo avrebbe condotto ad un mutamento degli equilibri istituzionali all’interno della Terra, con un sostanziale ridimensionamento del potere che un po’ alla volta i Consiglieri si erano arrogato. Come accade spesso nella storia alcuni provvedimenti fiscali funzionano da detonatore, ed anche nel nostro caso fu la proposta di introdurre una sovrattassa sul macinato, a scatenare la reazione popolare”.
Questo nell’Arengo del 9 marzo 1765. Ma negli anni successivi lo scontro divenne costante, l’Arengo provvide ad assegnare incarichi che fino a qual momento erano stati di competenza del Consiglio, aprì una vertenza per il controllo dei libri dei Resti tenuti dai camerari, chiedendo di far tornare i conti. L’Arengo portò la vertenza di fronte al Magistrato sopra i Feudi a Venezia, ottenendo una prima sentenza a favore, che però fu appellata dal Consiglio presso il Consiglio dei Quaranta a Venezia. Si andò avanti fino al ’73 in un fronteggiarsi continuo per l’affermazione dell’uno o dell’altro dei due organi nella direzione politica della Comunità. L’Arengo, composto dai popolari che nel frangente vengono chiamati comunisti (!), si arroga il diritto di ammettere i “foresti”, di organizzare la scuola, gratuita quella inferiore per i residenti, a pagamento per gli esterni, a pagamento per tutti quella superiore, convinti che l’istruzione potesse “apportare un universale beneficio a questa Terra e suoi abitanti” .
Alla fine ci si accordò per delegare la soluzione della vertenza a quattro nobili veneziani che nel marzo del 73 presentarono un memoriale di conciliazione. Era stato evidentemente un errore per L’Arengo accettare che fossero dei nobili esterni a fare da arbitri. Il compromesso non andava molto a loro favore, anche se in effetti il Consiglio dovette prendere “atto che il suo potere non era illimitato e che non poteva essere gestito senza la ricerca del consenso, o peggio, contro la volontà popolare” (Puppini).
Sono questi fatti importanti a testimoniare che, come in Francia, il popolo non accettava più una situazione di sottomissione di tipo feudale. S’era venuta a modificare l’economia, e le modifiche in campo economico portano sempre a conseguenze in campo sociale.
Anche a Tolmezzo la situazione economica nel primo Settecento si era profondamente modificata e la Terra aveva vissuto la sua rivoluzione industriale. “A partire dal terzo decennio, lo sviluppo di alcune importanti attività industriali legate alla produzione delle tele, e all’indotto ad esse connesse, dalla coltivazione e lavorazione della canapa fino alla produzione di ceneri per la sbianca mobilitò una consistente manodopera che trasformò Tolmezzo in un vivacissimo centro commerciale” (Puppini).
Non si potrebbe parlare di rivoluzione industriale perché il termine presuppone il coinvolgimento attivo di un territorio, che in questo caso non ci fu, ma si può parlare comunque di rivoluzione perché quello che è stato capace di fare Jacopo Linussio in trenta anni ha dello straordinario. E i benefici portati a tutta la Carnia dalla sua iniziativa industriale, fanno sì che, a ragione, questo possa essere considerato per la Carnia il “secolo d’oro”, con uno sviluppo economico senza precedenti, che attiva disponibilità finanziare che porteranno ad importanti realizzazione sia nel campo dell’edilizia privata che delle opere pubbliche.
Il Linussio nativo di Paularo nel 1717 creò un primo opificio a Moggio e successivamente tra il 38 e il 41 aprì una fabbrica a Tolmezzo. La sua “Fabbrica” diventò nel giro di brevissimo tempo la manifattura più grande d’Europa impegnando, fra diretti ed indiretti, fino a 30.000 persone. In un primo momento fu appoggiato dalle Comunità di Moggio e di Tolmezzo. Ma in seguito, per non smentirsi, quella di Tolmezzo, nel periodo di massima espansione dell’industria, costrinse Linussio a rivolgersi a Venezia a chiedere protezione per superare le difficoltà che gli venivano frapposte in sede locale, “d’onde partì una ducale severissima del senato in data 3 ottobre 1744, che richiamò al dovere chi osteggiava il Linussio con poco senno e meno prudenza” (G.Gortani).
L’abilità del Linussio è stata quella di aver saputo cogliere tutti i vantaggi competitivi che la situazione gli offriva:
- Venezia aveva proibito l’importazione dalla Germania
ponendo le condizioni per uno sviluppo del tessile interno;
- dalla Repubblica Linussio ottenne i privilegi introdotti per
favorire l’industria locale;.
- la Carnia disponeva di una qualificata manodopera nel settore, che Linussio seppe coinvolgere con un sistema di subfornitura e di lavoro a domicilio; riuscì a legare la grande industria all'artigianato domestico, fino ad avere più di 1200 telai sparsi nei vari centri abitativi della regione che lavoravano per lui.
- per la sua esperienza nel settore, maturata all’estero, sa introdurre delle innovazioni che gli consentirono di ridurre a circa ¼ i fili di ordito necessari per il disegno, e quindi di migliorare la competitività;
- seppe essere un grande innovatore nel design
Sull’esempio del Linussio crebbero altre piccole iniziative. In borgo Chiavris quella di Tommaso del Fabbro, quella di Pier Antonio e di Giuseppe Zinelli, dentro alle mura nella parte bassa.
Lo sviluppo dell’attività coinvolse molte persone del posto e obbligò ad importare maestranze qualificate dall’esterno. Due dei tre Sindaci del popolo del 1768 erano due dipendenti di Linussio venuti da fuori.
Ma ci fu anche una forte immigrazione di personale non qualificato che portò come conseguenza il chiudersi della Comunità sul problema dei “foresti” oggi si direbbe degli immigrati.
La difficoltà ad accettare i nuovi foresti si spiega con “l’abbuso dei foresti introdotti in questa terra d’ingerirsi ne boschi e pascoli esistenti in questo distretto in pregiudizio del terriero”. Era il problema dei ceti più poveri costretti a “dover dividere con i nuovi arrivati, per lo più povere famiglie di salariati, le magre risorse del territorio e dei beni comunali ai quali ricorreva chi non possedeva terreni propri, per allevare una mucca, un maiale o qualche capra, indispensabili per far quadrare il magro bilancio famigliare”. (Puppini).

La testimonianza del benessere economico e delle disponibilità finanziarie del momento, come s’è detto, ha riscontro nello sviluppo dell’edilizia e delle opere pubbliche.
Lo sviluppo dell’edilizia privata è testimoniato dalla costruzione della Villa Linussio alla quale fa riscontro la realizzazione di nuove abitazioni di pregio e prestigio da parte dei dirigenti dell’impresa o dei piccoli imprenditori che operavano in subfornitura, nelle frazioni di Tolmezzo come i Veritti a Terzo ed i Pittoni ad Imponzo, ed in altri centri della Carnia.
Lo sviluppo dell’edilizia pubblica è testimoniato dalla costruzione del nuovo Duomo (1752-64) e del nuovo ponte in legno sul torrente But (1763-65).
Per quanto riguarda il Duomo, già s’è visto che esisteva ormai da secoli la Chiesa di S.Martino ma a detta dello stesso parroco era “di struttura assai infelice meschina”. Anche per le dimensioni (12x20) non adeguate all’immagine che Tolmezzo veniva assumendo per lo sviluppo industriale in essere. Eppoi c’era stato un lascito proprio di Linussio che poteva venir utilizzato per l’inizio dei lavori. Le ambizioni erano grandi tant’è che il primo progetto presentato dallo Schiavi prevedeva tre navate, si optò per un ridimensionamento e fu un bene perché poi non senza difficoltà si arrivò alla conclusione dell’opera, anche così ridotta. “A testimonianza d’uno sforzo rivelatosi superiore alle possibilità della Comunità, la facciata rimase incompiuta” (Puppini).
Fatto importante dal punto di vista emblematico e per la storia della Chiesa friulana nel 1751 la soppressione del patriarcato di Aquileia, sostituito con gli arcivescovadi di Udine e di Gorizia. Nello stesso tempo Venezia intervenne per la soppressione di diversi monasteri e nel 1776 fu chiusa anche l’Abbazia di Moggio e venduta per 44.000 ducati assieme al titolo di marchesi di San Gallo.
Negli stessi anni si procedette ad una definizione dei confini tra Venezia e l’Austria. Ne dà testimonianza il cippo detto di Maria Teresa a Valbertat bassa, sulla strada per Lanza, che porta impresso da un lato il leone di S.Marco e dall’altro lo stemma del ducato di Carinzia e la data del 1777.
Nello stesso periodo l’architetto tolmezzino Domenico Schiavi e la sua operosa famiglia di capomastri e operai saranno gli artefici dell’ampliamento e della ristrutturazione di gran parte delle chiese della Carnia i molti casi completate dai cicli degli affreschi del figlio Antonio. I pittori Francesco Fortebrasso, Gaspare Dizioni e Pietro Antonio Novelli, “grazie alla committenza e ai buoni uffici del Linussio” lasceranno opere pittoriche di squisita fattura in molte Chiese della Carnia.
Ma del rapporto con Linussio trarrà vantaggio soprattutto Nicola Grassi (1682-1748) il più grande pittore del momento, che ci lascerà anche il ritratto dell’imprenditore, oggi al Museo Carnico.
Più veloce e con meno problemi rispetto al Duomo fu la costruzione del nuovo ponte sul torrente But, in coincidenza con la decisione del senato veneto di riattare ed allargare la strada da Venzone porta al passo della Mauria (1762). Si ricorse alla modalità che oggi si direbbe del project financing, immaginando il ritorno economico dai pedaggi ai quali si sarebbe imposto il passaggio di tutti i mezzi, eccettuati i pedoni. Mon mancarono tuttavia poi problemi per la riscossione del pedaggio in un primo momento gestito direttamente, poi dato in appalto. La controversia con gli abitanti di Verzegnis, che pretendevano di passare gratis perché il legname era stato ricavato dai loro boschi senza alcun compenso fu risolta con l’intervento di Venezia che obbligò Tolmezzo a pagare il bosco perché i verzegnassi accettassero di pagare il pedaggio. Arrivò poi Napoleone e obbligò ad eliminare la gabella sul ponte, mentre non c’era stato ancora il rientro completo del capitale investito. Nel 1810 fu asportato in parte da una piena, la sua storia si perde poi nelle dimenticanze degli estensori delle cronache, fino a che fu sostituito dall’attuale in muratura. cinquanta metri più a monte.
Ma il ponte sul But aveva avuto una sua storia precedente. Era sempre stato per secoli una delle emergenze della Terra. In effetti l’attraversamento del But era il problema nodale della viabilità per i collegamenti di Tolmezzo alla Carnia. Si doveva passare da lì sia per arrivare alla Val Tagliamento ed al Mauria, sia per entrare nella valle del But e a Monte Croce per la strada che da Caneva saliva a Zuglio. Si doveva passare di lì anche per arrivare alle ville oltre But, e per rendere l’idea del problema, basti pensare che dal 1597 al 1612 e quindi in soli quindici anni “si registrano ben dodici vittime annegate nel tentativo di attraversare il But” (Puppini).
Il problema s’era quindi posto da sempre, ma il fatto di aver dovuto attendere lo sviluppo indotto da Linussio per poterlo risolvere, testimonia che l’economia della Terra non era mai stata così ricca, e gli interventi esterni sempre poco consistenti. Per risolvere il problema si ricorse alla devozione a S.Nicolò vescovo di Myra protettore dai pericoli delle acque. Non a caso si intitolano a S.Nicolò le chiese di Caneva e di Amaro e in quella di S.Martino a Tolmezzo il più importante altare laterale era quello dedicato a questo santo. Non sono infrequenti anche i pellegrinaggi a Bari, per ringraziare il santo per qualche ex voto.
Ma già nel 1348 Benvenuto del fu Macasio “considerando i pericoli per i viaggiatori che attraversano l’acqua del But, volendo ovviare tali pericoli nel presente e nel futuro” avevano lasciato dei beni in testamento alla Chiesa di Tolmezzo, perché “si faccia un ponte sull’acqua anzidetta, e quando sia distrutto lo si ricostruisca nel presente ed in perpetuo a beneficio delle loro anime, confidando nel camerario di S.Martino più che in altre persone” (Dell’Oste)
I dubbi sulla capacità della Terra di realizzare il ponte, per cui il lascito viene fatto a favore della Chiesa, sono confermati dal fatto che non si sa che fine abbia fatto il lascito stesso. Perché il ponte vedesse la luce, dovevano passare altri tre secoli. La Magnifica Comunità spendeva regolarmente per gli “uomini deputati a tenere il ponte”, ma probabilmente si trattava d’una passerella che andava ripristinata ad ogni brentana, e come si è già ricordato solo nel luglio del 1626 “fu fatto un ponte stabile sul But e per tale ragione la Provincia fu ratata”, fu cioè obbligata a concorrere al finanziamento.
Per qualche motivo che non si riesce a ricostruire, il ponte più volte ripristinato era finito poi per diventare privato, proprietà di un certo De Conti che non provvedeva alla manutenzione. Per evitare il contenzioso si decise per la costruzione d’un nuovo ponte, un po’ più a monte, anche perché il vecchio era troppo stretto. Nel 1764 venne appaltata la costruzione del nuovo, largo 3,50 metri di 11 campate sorrette da 10 cavallette.
Purtroppo uno degli elementi che hanno accompagnato e per certi versi determinato la storia di Tolmezzo è la sismicità del territorio. Menavano vanto da pochi anni i Tolmezzini per il nuovo Duomo e per il Palazzo Linussio quando nella notte tra il 20 ed il 21 ottobre del 1788 poco dopo le quattro del mattino, mentre nel Palazzo Linussio si teneva una festa da ballo, si scatenò un terremoto che “può essere considerato il più disastroso nella storia di Tolmezzo, tenuto conto dei danni e del numero di vittime che provocò” (Puppini). Le cronache del tempo parlano di ventisei morti senza contare quelli morti in seguito a causa delle ferite riportate nei crolli delle case. “Fu in un punto diroccato il Duomo e l’altre chiese tutte e atterrate le abitazioni”. Pare che il crollo delle case abbia ostruito la roggia e ne sia derivata anche una inondazione.
Il terremoto diventa di solito anche una occasione di sviluppo e così il palazzo municipale “esistente in questa pubblica piazza e reso crollante” dal terremoto, (ma di fatto ancora agibile se vi si tennero le sedute del Consiglio fino alla inaugurazione del nuovo), fu costruito nel 1789 ex novo, sull’area ove oggi sorge il tribunale, acquistata ad hoc. Anche il Duomo pur “sfesato” fu regolarmente utilizzato e fu riparato. Nel 90 e 91 si ha anche riscontro dei lavori di riparazione delle chiese di S.Caterina e s.Maria Oltrebut che portarono ad una radicale modifica del loro aspetto.
Non si può lasciare il secolo senza parlare di quella che ben può essere definita la terza rivoluzione: la rivoluzione alimentare. Fra le altre cose Colombo aveva portato dall’America il mais e la patata. Nel secolo precedente Venezia si era impegnata per la diffusione di queste nuove culture e soprattutto per quella del mais. A Udine il mais compare ufficialmente solo nel 1627, ma nel settecento “era diventato il cibo fondamentale del contadino e del montanaro friulano” (Maniaco-Montanari). Ancora più difficile fu il percorso di diffusione della patata, per cui si era speso nel settecento Antonio Zanon.
Si afferma in Carnia prima che in altre parti, per uno stato di necessità, ma in Friuli resisterà per molto tempo invece l’idea che è cibo da sottosviluppati. Comunque con la fame che aiutava a superare le resistenze psicologiche e l’avversione alle innovazioni, le coltivazioni di patata e granoturco diventano anche per la Carnia elementi caratterizzanti il paesaggio rurale e soprattutto elementi caratterizzanti l’alimentazione. La polenta diventa in breve il cibo caratteristico, ma la monoalimentazione, se consente di risolvere il problema della sopravvivenza, induce come diretta conseguenza la malattia della pellagra, che alla fine del secolo sarà diffusissima.


Il Periodo Napoleonico.

Alla fine del Settecento il Friuli viveva ancora in una realtà di tipo feudale, quando fu scosso dal conflitto tra la casa d’Austria e la Francia repubblicana.
Il ciclone Napoleone che sconvolse l’Europa nei primi anni dell’Ottocento, sconvolse anche il Friuli e incise in modo radicale sulla storia della Carnia. L’avventura di Napoleone ebbe inizio quando il Direttorio nato dalla rivoluzione francese nel 1796 decise di riprendere la guerra contro l’imperatore Francesco II per costringerlo ad accettare l’annessione del Belgio alla Francia.
La strategia prevedeva una rapida avanzata sul Reno e la Mosa, mentre il giovane generale Buonaparte avrebbe fatto una azione di disturbo impegnando le forze austriache in Italia. Come si sa le cose sono andate ben diversamente, non riuscì lo sfondamento sul Reno, mentre Bonaparte entrato in Italia in marzo, sconfisse ripetutamente le truppe austro-piemontesi, conquistando tutta l’alta Italia. In Friuli sconfisse al Tagliamento l’esercito dell’arciduca Carlo, arrivando quindi a cento chilometri da Vienna e costringendo l’imperatore all’armistizio nella primavera del 97 poi definito nel trattato di pace di Campoformido (17 ottobre 97).
L’Austria accettava la nascita delle repubbliche cisalpina e ligure, e otteneva il Veneto con l’Istria e la Dalmazia, territori della disciolta Repubblica Veneta. Questo per quanto riguarda la storia dell’Italia, ma venendo ai nostri territori la conseguenza del ciclone Napoleone fu che Tolmezzo e la Carnia entravano a far parte del Regno austro-ungarico. Non era stato tutto così semplice. All’inizio della guerra Venezia s’era dichiarata neutrale. Ma la neutralità non le aveva portato alcun vantaggio. I suoi territori erano diventati luoghi di scontro tra le due potenze europee in guerra.
Gli austriaci avevano occupato il Friuli e l’arciduca Carlo aveva fissato il suo quartier generale a Udine. I Francesi erano già risaliti nel Cadore e facevano incursioni fino a Forni di sopra, ed avanzavano in pianura vincendo il fuoco infernale delle truppe austriache. L’arciduca fu alla fine costretto ad ordinare la ritirata generale. Il 18 marzo l’esercito Napoleonico entrava a Palmanova e nello stesso giorno le avanguardie erano a Venzone. Il Generale Massena continuò l’avanzata verso Tarvisio dove si ricongiunse con l’armata principale di Napoleone che saliva da Gorizia, e come si è già visto giunse quasi a Vienna, per fermarsi e siglare l’armistizio di Leoben.
Nel frattempo i territori della Carnia e del Friuli continuavano a far parte formalmente della Repubblica veneta neutrale, in una situazione di estrema confusione. A Socchieve c’erano i francesi mentre nella valle del But resistevano gli austriaci ed anche la Comunità di Tolmezzo fu costretta a partecipare alle requisizioni imposte da Napoleone per mantenere le sue truppe, inviando a Venzone animali da macello. La situazione si sbloccò con il Manifesto di Palmanova del 3 maggio con il quale Napoleone dichiarava formalmente guerra alla Repubblica di Venezia. Il 12 maggio il doge Lodovico Manin riunì per l’ultimo volta il Maggior Consiglio e con la resa ebbe fine la storia gloriosa delle Repubblica Veneta.
Valorj il comandante la Brigata che occupava le Province del Cadore e della Carnia il 18 maggio diede formale comunicazione del passaggio dei territori alla Francia, e della loro conseguente riorganizzazione secondo i nuovi criteri. La Carnia viene ripartita in quattro cantoni retti da quattro municipalità (di Tolmezzo, di Socchieve, dei Piani di Alzeri, di Comeglians. Con tutti i poteri decentrati alle municipalità, lasciando a Tolmezzo il Consiglio della Municipalità Centrale e il Tribunale civile di appellazione.
Ma il 17 ottobre fu siglata la pace a Campoformido e per un compromesso tra Austria e Francia fu costituito il Lombardo Veneto sotto il dominio austriaco.
In pochi mesi anche in Carnia si era quindi passati da Venezia alla Francia ed ora all’Austria e il Consiglio di Tolmezzo il 18 febbraio 1798 dichiarerà, non è chiaro con quanta sincerità, “ li sensi della maggiore esaltazione d’animo per il felicissimo avvenimento d’essere pervenuto sotto li clementissimi Auspici dell’Augustissimo Sovrano Imperatore e Re Francesco II.” . Furono inviati a Udine a prestare il giuramento alla Sovrana Cesarea Maestà, a nome della Comunità, Niccolò Del Fabbro e Giacomo Linussio.
Ma non era finita. L’anno dopo, mentre Napoleone era in Egitto si costituì quella che nella storia d’Europa è nota come la seconda coalizione antifrancese, partecipata anche dalla Russia. Alla fine di marzo il generale russo Suvorov entrava in Italia da Tarvisio ed alla fine di aprile aveva già riconquistato il Piemonte.
Al passaggio le truppe avevano bisogno di carne, di paglia, di fieno, ed anche di carri per il trasporto. Il commissario provinciale Francesco Colloredo impose a Tolmezzo di mettere a disposizione ben cento carri per il trasporto delle truppe dal Canal del Ferro fino a Venzone. Carri che rimasero impegnati per oltre un mese, si può immaginare con quali conseguenze per le attività a cui erano adibiti normalmente.
Al rientro dall’Egitto, con la famosa battaglia di Marengo, Napoleone ripristinando la situazione che aveva lasciato, riportò l’ordine in Italia, e la pace di cui avevano bisogno anche i cittadini di Tolmezzo per riprendersi da ciò che avevano dovuto subire negli anni di guerra, e completare la ricostruzione del terremoto del 1788.
Ma fu per poco. Nel 1805 si formò la terza coalizione contro Napoleone. In Friuli tornarono di nuovo le truppe francesi del generale Massena, con tutto quel che ne consegue. Napoleone vinse ancora una volta. Con la battaglia di Austerliz, costrinse l’imperatore a rinunciare al titolo di Imperatore del Sacro romano impero per restare solo imperatore d’Austria. Ma soprattutto, per quel che ci riguarda, tolse all’Austria le Tre Venezie, l’Istria e la Dalmazia, e Tolmezzo si trovò cosi a passare di nuovo con la Francia per far parte del Dipartimento di Passariano diviso nei quattro distretti di Udine, Cividale, Gradisca e di Tolmezzo, o per l’esattezza del Fella, perché comprendeva anche Moggio ed ai distretti fu dato il nome del fiume che li caratterizzava.
Nello stesso anno Napoleone aveva istituito il Regno d’Italia e con grande solennità se ne era incoronato re, lasciando poi il governo con il titolo di viceré a Eugenio di Beauharnais il figlio che sua moglie Giuseppina aveva avuto da un precedente matrimonio.
Il Distretto della Carnia diviso nei quattro Cantoni di Ampezzo, Rigolato, Paluzza e Moggio era sede di viceprefettura. Con decreto 24 aprile 1807 il Viceré Eugenio Beauhranis nominava vice-prefetto di Tolmezzo il conte Francesco Maria Ricchieri di Pordenone. Prefetto era Teodoro Semenzari che intraprese una iniziativa per la riorganizzazione amministrativa del territorio, tentando di vincere, (senza sempre riuscirci come nel caso di Preone) la diffidenza dei carnici a mettersi assieme.
A Tolmezzo che aveva 1300 abitanti furono aggregate le attuali nove frazioni e passò con i suoi 3.500 abitanti a comune di 2^ classe retto da un Podestà, mentre quelli più piccoli erano governati da un Sindaco. Podestà, Sindaci ed anche i consiglieri comunali erano di nomina prefettizia, con ricambio annuale di una parte dei componenti scelti dal prefetto su una rosa di nomi proposta dal Consiglio stesso. Dal 1808 al 12 fu podestà Giacomo Linussio, nipote di Jacopo, sostituito poi da Lorenzo Campeis
Tra le riforme introdotte da Napoleone significativa quella della giustizia, amministrata direttamente dal Vice Prefetto con l’aiuto dei giudici di pace di ogni cantone. Diventava così superfluo il ruolo del Tribunale. che infatti fu abolito il 13 ottobre 1807 tra le proteste dei tolmezzini e il consenso dei carnici che vedevano finalmente la fine degli abusi del capolouogo nei loro confronti.
La mancanza d’autonomia ed il centralismo introdotto con questi ordinamenti porterà ad una opposizione passiva che si manifesta nel rifiuto, giustificato in qualche modo, da parte di alcuni a ricoprire le cariche, e nella difficoltà a volte a raggiungere il numero legale nei consigli.
S’era intanto formata la quarta coalizione contro Napoleone che portò a scontri soprattutto nel nord Europa senza interessare i nostri territori. Ma non fu così con la quinta coalizione nel 1809, quando ancora una volta l’Austria tentò di ribellarsi all’egemonia francese alleandosi con l’Inghilterra. L’esercito austriaco sfondò nella Valcanale e ci fu poi uno scontro memorabile attorno a Venzone. Le sorti della guerra volsero in un primo momento a favore degli austriaci, e il 23 aprile il generale Goess governatore di Trieste entrando vittorioso a Udine fece celebrare un Te Deum di ringraziamento, con uno straordinario concorso di gente “mai più veduto in dodici Tedeum sotto il Francesi”. Il fatto fece arrabbiare Napoleone che ordinò la fucilazione del vescovo di Udine Rasponi, che però poi fu risparmiato.
Mutarono in breve le sorti della guerra e il Viceré riprese in mano la situazione, e riprendendo possesso dei territori del Friuli. Le sue avanguardie in un primo momento furono fermate a Malborghetto da poche centinaia di difensori austroungarici comandati dal Generale Hensel, ma arrivate le artiglierie, con un assalto nel quale perse la vita anche il comandante si pose fine alla resistenza. La guerra finì con la battaglia di Wagram del 7 luglio e con il successivo trattato di Schonbrun fu annesso al dipartimento di Passariano anche il cantone di Tarvisio.
Per la Carnia non era ancora finita perché in Tirolo era scoppiata una rivolta antifrancese guidata da Andreas Hoffer. I ribelli arrivarono fino a Rigolato dove furono affrontati, dai francesi affiancati dalle Guardie nazionali locali di Rigolato e Tolmezzo. I ribelli ebbero la meglio ed anche alcuni carnici finirono loro prigionieri, fino alla sconfitta definitiva dei ribelli il 15 agosto dell’anno successivo ad opera dei generali Rusca e Zucchi.
“La guerra si era risolta in un paio di mesi, ma era stata una devastazione per le famiglie impoverite dalle requisizioni, dal servizio militare, dal servizio di assistenza che portava via da casa e dal lavoro tutti gli uomini validi” (De Pauli)
Alle disgrazie legate alla guerra s’uniscono per Tolmezzo quelle legate alla natura. Il 16 luglio del 1810 ci fu una alluvione senza precedenti. Ma non ci fu neppure il tempo di valutarne i danni che esattamente un mese dopo il 16 agosto, come scrive il podestà Linussio “una prodigiosa quantità d’acqua, portò una prodigiosa quantità di legnami barbicati dalle montagne che ruppe furiosamente il ben stabilito ponte, riducendo a ghiaia le piane di Tolmezzo e Caneva”
Nel 1812 la decisione di Napoleone di invadere la Russia si trasformò in un disastro del quale pensarono di poter approfittare i suoi avversari e si formò l’anno successivo la sesta coalizione. Nell’ottobre del 1813 Napoleone fu sconfitto a Lipsia (16-19 ottobre). In contemporanea il 17 ottobre le truppe austriache entravano a Tolmezzo. Fu quindi costretto a ritirarsi all’isola d’Elba, mentre le truppe della coalizione entravano a Parigi il 31 marzo del ’14. Fuggito dall’isola tentò di risollevare ancora le sorti della Francia, ma con la disfatta di Waterloo del 18 giugno 1815 ha definitivamente fine la sua avventura e viene rinchiuso in esilio nell’isola di S.Elena in mezzo all’oceano.
Nell’Italia nord-orientale si formò il regno Lombardo Veneto vassallo dell’Austria, affidato, con il titolo di Viceré all’arciduca Ranieri, fratello del re Francesco I..
Il breve intermezzo di dominio francese non sembra abbia lasciato segni particolari a Tolmezzo. L’innovazione più evidente che Napoleone volle introdurre era quella della scuola pubblica, chiedendo ad ogni Comune di impegnarsi mettendo tra le priorità l’argomento. Ma a Tolmezzo, la cosa non pareva poi così importante, e non se ne fece nulla. I Francesi ripresero anche gli scavi a Zuglio, ma in Carnia i problemi erano ben altri se a Cazzaso il 13 luglio 1813 fu trovato un “esposto”, un bambino abbandonato, nel rio sopra Florencis, che recuperato dal cappellano fu inviato all’ospedale di Udine. A Caneva invece fu trovata una bambina sul campanile. Questo degli esposti era un fenomeno diffuso come ricorda la De Pauli. “Nelle chiese veniva collocata “la ruota degli esposti”accanto al portone. Il neonato abbandonato veniva appoggiato alla ruota e con una spinta veniva fatto entrare dentro l’edificio. Attaccata alla ruota c’era una campanella che avvertiva dell’arrivo. Ai bambini abbandonati si davano cognomi convenzionali”.
Furono quelli per Tolmezzo e la Carnia gli anni (1814) della messa in liquidazione della Fabbrica Linussio, e quindi della fine d’un sogno di sviluppo autonomo della Carnia.

Con l’Austria.

Dopo la definitiva scomparsa di Napoleone, i sovrani assoluti tornati sui loro troni si trovarono davanti a ben precise difficoltà nel tentativo di restaurare l’antico ordine di cose. Infatti la borghesia, rafforzatasi nel periodo napoleonico, mal tollerava un ritorno radicale al passato. In Austria in particolare l’accentuazione da parte del Metternich del tradizionale centralismo burocratico e amministrativo mirava a cancellare ogni velleità nazionale nei territori occupati (Camera-Fabietti)
Nel Lombardo Veneto furono sostanzialmente confermati gli ordinamenti introdotti da Napoleone. Il regno era diviso in due parti con due governatori uno a Venezia ed uno a Milano, il territorio organizzato in Province affidate ad un Delegato Provinciale. Ai cantoni fu cambiato solo il nome e divennero distretti e furono affidati ad un Cancelliere del Censo. A Tolmezzo al viceprefetto subentrava un Commissario Distrettuale. Nuovo fu invece il ruolo importante assegnato al clero con i parroci responsabili delle liste di vaccinazione e coscrizione e soprattutto dell’istruzione elementare.
Il passaggio all’Austria venne sentito come una liberazione, ma ci fu poco di che star lieti perché coincise con la terribile carestia del 1816-17. Torme di gente affamata rubava ciò che poteva, Vincenzo Zamolo fu arrestato per cinque pannocchie. A Tolmezzo si istituirono le ronde armate e i Comuni furono costretti ad indebitarsi o a tagliare boschi per garantire la sopravvivenza della popolazione, che in gran parte fu comunque costretta ad emigrare. Come racconta il dott. Lupieri nelle sue memorie per sfamare i bisognosi fu inventata la zuppa economica Rumford: poche fave qualche raro fagiolo, risparmiando sul sale, il tutto in un brodo ricavato facendo bollire delle ossa di maiale già spolpate.
Comunque nel contesto italiano del tempo, il Veneto poteva essere considerata la Regione più florida e la meglio amministrata, con l’istruzione elementare imposta per legge. Vienna si era anche impegnata in opere pubbliche che ne favorivano lo sviluppo come nel 1836 la costruzione della nuova strada attraverso la Val Fella (Paschini).
Tolmezzo invece era presa dalle solite beghe locali. L’acqua sembra sia stata il problema di quegli anni. Quella della fontana della Piazza, per la quale gli abitanti di Santa Caterina nel 1839 chiedevano una derivazione, per non essere costretti a salire fino alla piazza per attingerla, mentre nello stesso tempo si protestava con quelli che ne avevano fatto delle derivazioni a monte o nella presa in Picotta, riducendone la portata nei periodi di magra.
La fontana, (lamentandone la scomparsa), ci viene descritta da Giovanni Del Puppo per trenta anni direttore dei Musei Civici di Udine, nei suoi ricordi di fanciullezza sulla vecchia Tolmezzo, “con il suo alto margine di pietra, e la colonna centrale ornata dei mascheroni che tenevano in bocca i tubi di lamiera, come un suonatore di clarinetto tiene in bocca il suo strumento, e dai quali zampillavano quattro getti abbondanti d’acqua limpida e fresca, attirando in fretta a certe ore le fantesche e le popolane”.
Per queste ultime la Deputazione dovette emanare un richiamo ad evitare di rovesciare acqua sulla strada perché d’inverno il ghiaccio costituiva un pericolo per carri e pedoni.
Non meno intricato il problema dell’acqua della roggia che poco oltre la porta di sotto si divideva in due rami, uno, quello rimasto sino ai giorni nostri, al servizio della fabbrica Linussio, l’altro che proseguiva sull’attuale via IV novembre per servire le Filande dei Frisacco Moro e Zinutti. Anche qui si pose il problema di come garantire la costanza dell’acqua ad entrambi i rami, mentre più a valle c’era qualcuno che si lamentava perché il ramo secondario tracimava bagnando nocivamente i fondi contermini.
Si è già detto dell’importanza che il governo austriaco attribuiva all’istruzione. Non altrettanta se ne attribuiva a Tolmezzo, come s’è già visto nel periodo napoleonico, “ove la borghesia al potere non aveva nessuna intenzione di gravarsi di tasse per provvedere all’istruzione del popolo” (Luigi Antonini Canterin).
Anche a Tolmezzo tuttavia ci si dovette adeguare pur senza grande entusiasmo trovando, non senza difficoltà, le risorse per istituire la scuola elementare minore che per legge era a carico dei Comuni. I paesi della conca si disimpegnarono con il pretesto che il vantaggio dell’istruzione non valeva la pena dei rischi che i ragazzi avrebbero corso per frequentare la scuola a Tolmezzo Si arrivò comunque nel ’23 all’istituzione, e dato che i preti costavano meno come maestri, si incaricarono pre Pietro Picottini per la prima classe e pre Candido Del Fabro per la seconda. Solo nel 1846 si arrivò all’istituzione della scuola femminile affidata alla maestra Cominotti Elisabetta. L’Arcidiacono aveva anche l’incarico di ispettore scolastico.
Lo stretto collegamento tra potere politico e religioso e la deferenza del clero nei confronti dell’Austria, caratterizza la vita sociale del tempo. L’Arcivescovo Emanuele Lodi (a Udine dal ’19 alla morte nel ’45), raccomanda anche al parroco di Tolmezzo mons Francesco Comelli (a Tolmezzo dal ’32 al ’40, dopo Giuseppe Agnese parroco per quaranta anni dal 1790 al 1832) di far cantare l’inno nazionale “senza dar luogo nemmeno all’apparenza di un obbligo imposto”. Se Comelli aveva delle perplessità a mostrarsi filoaustriaco, il suo successore Giuseppe Chiussi da Arta, amava firmarsi con la K, a richiamare l’origine austriaca del cognome e quindi la simpatia per l’Austria.
Ma anche in Carnia si sentiva il significato illiberale e antinazionale della dominazione austriaca, e si diffuse l’eco dei primi moti insurrezionali promossi dal Mazzini nel 1833-34.
Erano due giovani ufficiali disertori della marina austriaca i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera fondatori dell’Associazione Esperia poi confluita nella giovane Italia di Mazzini, giustiziati nell’inutile tentativo di far sollevare la Calabria..
Se gli intellettuali avversavano l’Austria per motivi ideali il popolo finì per sentirla ostile perché si volle imporre la privatizzazione dei beni di uso collettivo. Già con Napoleone molti piccoli paesi avevano perso l’identità di Comuni per diventare Frazioni, ma anche come frazioni mantenevano l’autonomia nell’amministrare i beni comuni di pertinenza, invece “la sovrana risoluzione del 16 aprile 1839 prescrisse l’alienazione dei Beni Comunali in generale, ed in particolare degli incolti” (De Pauli). L’applicazione del provvedimento portò ad una serie di controversie e di litigi, ma rese ancor più difficile la sopravvivenza in montagna e innescò una nuova corrente migratoria.
Nel 1848 i fermenti rivoluzionari che si erano sviluppati nel continente giunsero a maturazione, e in tutta Europa dilagò la rivoluzione, ad iniziare dalla Francia. Anche nell’Impero asburgico esplosero i movimenti indipendentistici a partire dalla Boemia ed Ungheria. Sotto la guida di Carlo Cattaneo Milano vive l’esperienza della Cinque Giornate, a Venezia si restaura la gloriosa Repubblica di San Marco sotto la presidenza di Daniele Manin. A Udine si inalbera il tricolore sul castello e l’Arcivescovo Bricito, pensando di interpretare i sentimenti del papa Pio IX che in un primo momento aveva preso delle posizioni favorevoli rispetto ai moti rivoluzionari, celebrò una messa solenne.
Dopo molte esitazioni, in appoggio ai moti rivoluzionari sviluppatisi nel Lombardo Veneto, il Piemonte con Carlo Alberto il 23 marzo dichiarò guerra all’Austria. In un primo momento l’Austria sembrò accettare lo stato di fatto senza alcuna reazione, il Comando Provvisorio di Udine prese in mano la Provincia, le Deputazioni Comunali attivarono la Guardia nazionale. Ma mancava una organizzazione e mancavano armi. l’Austria riprese l’iniziativa con il generale Nugent, il Comitato di guerra di Udine sotto i bombardamenti decise la capitolazione. Il generale Culoz scese da Tarvisio, superando la debole resistenza degli uomini del Canal del Ferro, anche la Deputazione di Tolmezzo si adeguò.
Resisteva il Cadore e Pier Fortunato Calvi chiese l’aiuto ai Tolmezzini per bloccare gli austriaci al passo della morte, ma questi risposero che si erano già arresi. Resistette Palmanova fino al 24 giugno. Il 12 ottobre con l’onore delle armi capitolò anche il forte di Osoppo. Nell’estate del 49 si arrese anche Venezia, alla cui difesa parteciparono anche diversi carnici tra cui Giulio Lupieri di Luint, e tolmezzini come Cassetti Biaggio e Giovanni e Pittoni Giacomo.
Sotto la direzione del generale Radetzky nel Lombardo Veneto “fu rimessa in piedi tutta una oppressiva macchina poliziesca e furono presi provvedimenti che danneggiarono gravemente l’economia locale. Il governo austriaco ebbe dalla sua la Chiesa, grazie agli accordi ed alle concessioni fatte. Anche il liberale vescovo di Udine Bricito, che credeva nell’idea del Gioberti per una unificazione dell’Italia come confederazione di Stati attorno al Papato (ritratto nel Duomo di Udine in un busto a destra dell’ingresso laterale) fu costretto con non poca autoironia ad invitare i suoi parroci ad “essere solleciti delle cose dell’eternità, non di quelle di questo secolo”. Nel 51 “la morte dell’Arcivescovo Bricito segnerà la fine dell’idea neoguelfa in Friuli” (De Pauli).
L’incertezza della situazione politica, non impedisce di festeggiare le ricorrenze. Nel ’57 ricorreva il bicentenario dell’arrivo delle reliquie di S.Ilario. Tolmezzo pensò di approfittare dell’evento per darsi finalmente una piazza, all’altezza del ruolo di capoluogo che pretendeva. Ma per le resistenze del proprietario del mulino che la ingombrava, non se ne fece nulla. Grandi furono invece i festeggiamenti e le processioni di popolo da tutta la Carnia, anche se possono sembrare discutibili i gusti del tempo “ la facciata del Duomo che risplendeva di oltre trecento lumini a oglio, di molti palloncini colorati, e soprattutto delle grandiose e trasparenti immagini di S.Ilario, S.Martino e S.Paolo, la prima delle quali sovrapposta alla Porta Maggiore e le altre due nelle nicchie laterali”.
Malgrado tutto si festeggiava. Ma anche ci si organizzava per migliorare la qualità della vita. Nel ’58 viene istituito il trasporto pubblico dei passeggeri con Udine. Una volta al giorno con il vetturale Antonio Paronitti e fermata a Gemona per il cambio di cavalli.
Dopo i rivolgimenti del ’48 ‘49 la reazione si abbatteva su molti stati italiani ed europei, mentre però nell'Europa orientale si riaffermava il più cieco assolutismo, come nel caso della Russia zarista, nell'occidente la borghesia moderata finiva col far trionfare il principio monarchico-costituzionale. Anche in Italia il Piemonte mantenne la costituzione e per opera soprattutto del Cavour, il regno sabaudo realizzo notevoli progressi in campo civile ed economico. Ma la preoccupazione preminente del geniale statista piemontese fu quella di inserire il Piemonte nel gioco politico europeo, allo scopo di risolvere il problema italiano attraverso i normali rapporti diplomatici e le alleanze con le altre nazioni. Riuscì ad ottenere l'appoggio militare della Francia. Qui il 48 era finito con la nomina di Luigi Napoleone Bonaparte a primo Presidente della II Repubblica, il quale tuttavia nel giro di due anni con un plebiscito era riuscito a farsi eleggere imperatore con il nome di Napoleone III.
Cavour si alleo con Napoleone III per sistemare la situazione degli stati italiani. I franco piemontesi nel 1859 riportarono alcune vittorie sugli austriaci, ma nelle battaglie di S.Martino e Solferino, pur riuscendo vincitori, avevano riportato perdite ingenti, e Napoleone, preoccupato per la minaccia d’un attacco da parte della Prussia al nord, si decise per l’armistizio di Villafranca con gli austriaci.
Ma la situazione in Italia precipitò, con i plebisciti gli stati dichiararono l’annessione al Piemonte, l’impresa dei Mille portò all’annessione del sud, e il 17 marzo 1961 il nuovo parlamento italiano riunito a Torino proclamava la nascita del Regno d’Italia con capitale Roma. Il processo per l’unità si era realizzato come occupazione dell’Italia da parte del Piemonte, in contrasto con l'azione democratica mazziniana e garibaldina che si proponeva di giungere all’ indipendenza e l'unità della penisola attraverso l'azione popolare. L’unità imposta dall’alto soppiantò anche l’idea d’una soluzione di tipo federale, auspicata dal Cattaneo, che forse meglio avrebbe favorito l’aggregazione di regioni che per secoli avevano avuto storie molto diverse.
Anche se il clero parteggiava per l’Austria “la parte più colta ed evoluta della popolazione carnica non fu sorda alle voci di risorgimento che echeggiavano in tutta Italia e non mancò di aderire all’esercito nazionale e poi di entrare a far parte delle schiere garibaldine.
Con l’armistizio di Villafranca si era resa molto difficile la situazione in Friuli. Tutti i centosettantanove comuni della Provincia friulana avevano aderito al Plebiscito Segreto dei Comuni per l’unione del Veneto all’Italia, ma con l’armistizio il Veneto era rimasto all’Austria. Molti friulani e carnici di conseguenza erano stati costretti a lasciare la terra per evitare la repressione austriaca ed anche nella speranza di contribuire alla liberazione. Fra i rimasti e i fuoriusciti c’erano evidentemente dei rapporti che rendevano difficile l’azione di controllo e repressione da parte del governo austriaco, che si fece sempre più pressante.
In questo contesto si inserisce, fra le altre, la vicenda di Lucia Toscani, moglie di Andrea Linussio cospiratrice attiva ed intelligente (Paschini) che l’Austria fece arrestare e deportare prima a Graz e poi a Bruck e quindi in Slovenia. Liberata morì nel ’64 a seguito della malattia contratta in prigionia. A lei nel 2011 Tolmezzo ha dedicato un giardino, ricordando i 150 dell’Unità d’Italia.
Nell’aprile del 1864 Mazzini e Garibaldi s’incontrarono a Londra e si parlò della liberazione del Veneto. Anche all’interno del Friuli si formarono delle bande armate d’ispirazione mazziniana, che speravano di riuscire a far sollevare la popolazione, Una sorta di anticipo della Resistenza del secondo dopoguerra. Il moto rivoluzionario che si era attivato con a capo il medico Andreuzzi e base nel suo paese natale a Navarlons fu scoperto dagli austriaci e dovette sciogliersi. Altrettanto avvenne per la banda di Maiano della quale facevano parte anche molti carnici che si sciolse fra Lovea e Illegio dove erano arrivati da Dordolla in Val Aupa.
La conquista del Veneto per completare l’unità restava comunque uno dei problemi del nuovo Regno. L’Italia si alleò con la Prussia contro l’Austria (III guerra d’Indipendenza), anche se fu sconfitta per terra a Custoza e per mare a Lissa, nell’armistizio di Cormons, ottenne il Veneto, ma con un confine svantaggioso sulle Alpi (Camera-Fabietti). La magra figura dell’esercito regolare era compensata dalle vittorie di Garibaldi a Bezzecca e da quelle delle bande armate sul Tonale e sullo Stelvio, scontri ai quali parteciparono molti aderenti alle friulane “Bande del 1864”.
Il confine svantaggioso definito a Cormons il 12-13 agosto 1866 lasciava all’Austria i distretti di Moggio, Tarcento Cividale e s.Pietro al Natisone. In Carnia passava dal Coglians all’Arvenis ed al Cretis, per cui nasceva un confine al Vinadia tra Tolmezzo austriaca e Villa Santina italiana.
S’aprì un periodo ancora più difficile per gli abitanti di Tolmezzo. Il Podestà Andrea Linussio temendo ritorsioni sulla sua famiglia s’era ritirato dai parenti a Mione. Commissario del re Vittorio Emanuele II per la Provincia di Udine era Quintino Sella che riteneva di poter ancora ampliare la Provincia ai suoi confini naturali. Tolmezzo, diventata zona di confine era stata trasformata in una guarnigione dell’esercito austriaco, acquartierato persino nelle Chiese di Centa e S.Caterina, al comando del generale conte Arturo Mendsdorff. A rappresentare il Comune s’era trovato Cristoforo Morocutti da Ligosullo titolare delle Privative che ci ha lasciato un dettagliato diario di quei giorni. Le truppe austriache furono colpite dal colera, fra la popolazione ci furono casi di vaiolo.
Finalmente il 3 ottobre fu firmata la pace di Vienna che definiva meglio i confini del Veneto italiano. Dopo alcuni giorni di notizie incerte si ebbe la conferma del passaggio del Friuli all’Italia, e il 10 ottobre nel Duomo di Udine al Te Deum, celebrato dall’Arcivescovo Casasola, (per la verità con poco entusiasmo per i rapporti tesi che si erano instaurati tra Chiesa e Stato dopo il Sillabo di Pio IX) parteciparono per la Carnia il dottor Lupieri e il dott.Magrini e per Tolmezzo il dottor De Prato e il sig.Tavoschi Fedele. Il nuovo confine divideva in due Pontebba e lasciava all’Austria anche Gorizia, Monfalcone ed Aquileia.
Il 21 e 22 ottobre si tennero i plebisciti per l’annessione. In Friuli si ebbero 105.386 si e 36 contrari in gran parte di Coseano, l’unico Comune dove aveva vinto il no. A Tolmezzo ci furono 6621 sì ed un solo no (!).


Tolmezzo e la Carnia italiane.

L’entusiasmo per l’annessione all’Italia si smorzò subito di fronte ai provvedimenti impopolari che il nuovo Regno fu costretto a imporre per risanare la finanza pubblica. Il ministro delle Finanze Quintino Sella (che i friulani conoscevano bene perché dal 28 luglio al 10 maggio aveva fatto il Regio Commissario ad Udine, in una veste che anticipava quella dei prefetti nella fase di transizione dall’Impero Asburgico al Regno d’Italia) preoccupato del pareggio di bilancio, portò alle estreme conseguenze la politica della tassazione indiretta, introducendo nel 1868 la tassa sul macinato.
Ai mugnai fu affidato il compito di riscuotere la tassa e furono quindi dotati di apposito contatore per misurare la farina macinata. Definita dalla opposizione parlamentare “tassa affamatrice del povero perché tutti consumano la farina quando si nutrono di pane”, provocò dimostrazioni, disordini, saccheggi e incendi dal Nord al Sud della penisola. Ci fu una serrata di tutti i mulini d’Italia il 1° gennaio del ’69. Le cronache dell'epoca parlano di 250 morti e più di un migliaio di feriti.
Curiosa la possibilità concessa di applicare la tassa con le misure locali invece che con il sistema metrico decimale. “Nel 1869 la tassa venne fissata in 42 centesimi di lira per ogni staio di macinato e cioè 7 centesimi per pesenale per il granoturco, il grano saraceno e la segale. Di solito il mugnaio cavava direttamente la molenda, cioè la tassa dovuta dal contadino” (Molfetta) ma a dire dei mugnai della Carnia i contatori imbrogliavano e per tutti annota Candido Straulino da Sutrio “Questa tassa fu messa barbaramente ai poveri mugnai dal Ministro delle Finanze Quintino Sella, e che per cui, applicato ai pali i contatori, segnando male, ha rovinato e precipitato tutti li poveri mugnai, infine a dover chiudere il proprio mulino. Barbarità mai veduta al mondo”.
Al di là di queste difficoltà iniziali, Tolmezzo entrata a far part.e del Regno d’Italia sembrò sentisse la necessità di rinnovarsi. L’anno dopo, il ’67, si acquistò la dismessa chiesa di S.Antonio che dava sulla piazza principale e l’ing. Andrea Linussio fu incaricato del progetto di “riduzione della dimessa chiesa di S.Antonio e attiguo ospizio ad uso da casa municipale”.
Non c’era ancora molta burocrazia e nei locali trovarono posto anche al piano terra la scuola femminile ed al primo e secondo piano quella maschile con accesso separato rispetto a quello degli Uffici. Fu sistemato l’edifico delle carceri che era stato realizzato nel 1840 dal Governo austriaco “in luogo inopportuno” perché a ridosso della piazza principale. La piazza , come si è già visto, aveva “una gobba” per sopraelevare la roggia e far funzionare il mulino collocato di fronte all’attuale municipio. Già nel 66 ci si accordò con il proprietario Gio Batta Seccardi per eliminare il mulino e l’area fu acquistata da Antonio Molinari che vi costruì la casa ed il negozio di coloniali al pianterreno.
L’architetto Raimondo D’Aroanco che aveva progettato la facciata del Roma progettò anche quella del Teatro che il sindaco Lino De Marchi costruì in proprio per migliorare i servizi a disposizione del paese.
Si pose subito anche il problema della viabilità di attraversamento, discutendo, con la partecipazione anche dei Sindaci della Carnia se si doveva privilegiare il passaggio su via Canale (Via del Din) o su via Castello. Alla fine abbandonando l’attuale via Gemona, che costituiva la via d’accesso storica, si aprì una nuovo ingresso, rinunciando al passaggio per porta di sotto. Successivamente si aprirono le mura anche su via Canale per il collegamento a sud con via della Fabbrica (oggi Pio Paschini).
La gastaldia realizzava una strettoia su via castello (attuale via Roma), per allargare la strada se ne previde la demolizione, ed al suo posto nell’89 fu inaugurato l’Albergo Roma.
Più tardi nel 1907 si completò lo scempio ai danni della Tolmezzo storica, (che si sarebbe potuto evitare realizzando una strada di circonvallazione), e si intervenne per la demolizione anche della porta di sopra.
La miopia della Tolmezzo presa dagli interessi di bottega si conferma anche sul problema della ferrovia. Alla Carnia che chiedeva la stazione a Villa Santina si opponeva Tolmezzo che sosteneva la ferrovia dovesse fermarsi al Capoluogo. Nel 99 si costituì un comitato a Villa Santina presieduto da Ignazio Renier al quale giocoforza dovette aderire anche Tolmezzo accettando le ragioni della Carnia e l’8 maggio 1910 finalmente si inaugurò la Tolmezzo-Villa Santina. Il 2 aprile 1911 ci furono poi i festeggiamenti per la posa della prima pietra del ponte Avons per migliorare i collegamenti con Cavazzo e Verzegnis, che sarà inaugurato nel ’13..
La spinta ad innovare sul piano urbanistico e della viabilità derivava dalla spinta ad innovare sul piano dell’economia e della finanza. Ebbe di nuovo un forte impulso l’emigrazione che si caratterizzò come emigrazione di personale qualificato nel settore dell’edilizia verso i paesi dell’Europa centrale. Il commissario distrettuale di Tolmezzo Antonio Dall’Oglio calcolava nel 1870 gli emigranti (censiti 5694!) un sesto dell’intera popolazione e li considerava l’unica vera forza produttiva della Carnia (De Pauli). Una emigrazione organizzata con i “polier” capi-operai che a primavera reclutavano le squadre, ma anche con imprenditori locali che appaltavano lavori all’estero. Come Giacomo Cecconi di Pielungo che diventa uno dei più importanti impresari d’Austria (occupando fino a 15.000 dipendenti) al punto di essere insignito del titolo di conte dell’Impero asburgico.
Sul piano sociale anche a Tolmezzo nell’agosto del 1881 si costituisce la Società Operaia di Mutuo soccorso, sull’esempio di quella che si era già costituita a Udine ad opera di Quintino Sella nel ’66. “Ha per oggetto la fratellanza ed il mutuo soccorso, tende a promuovere la moralità, il benessere tra gli operai, affinché è possano cooperare al bene della Patria e dell’umana famiglia”. Sull’esempio se ne formarono altre, quasi in ogni paese della Carnia. Organismi interclassisti con spirito filantropico e con l’intento strumentale di evitare situazioni di miseria troppo esacerbata che possono favorire soluzioni eversive. (Renzulli).
Grande impulso ebbe (finalmente!) anche il settore dell’istruzione pubblica. Nel ’87 si tennero a Tolmezzo i primi esami ufficiali di Licenza elementare. Ma negli stessi anni si era aperta la scuola serale di Disegno applicato alle Arti e alle Industrie per aiutare i giovani ad un inserimento qualificato al lavoro, mentre nelle frazioni si aprivano le scuole serali maschili e femminili.
Le rimesse degli emigranti, in quegli anni, generano un importante movimento finanziario che porta Pietro Ciani ad istituire la Banca del Popolo già nel ’68, nasce poi nel 76 la Cassa di Risparmio Postale e nell’87 la Cassa rurale di Villa Santina, infine “il 29 marzo 1890 un gruppo di commercianti, possidenti e liberi professionisti carnici, riunitisi nel Palazzo Comunale di Tolmezzo, sottoscrissero l’atto di fondazione della società anonima per azioni Banca Carnica” (De Pauli). Uno dei primi investimenti della Banca fu proprio quello della realizzazione del nuovo acquedotto.
A Roma nello stesso tempo scoppiava lo scandalo della Banca Romana che, potendo battere moneta, aveva duplicato i titoli emessi. Il sospetto che molti politici avessero tratto vantaggio da questa finanza allegra (fra cui Giacomelli eletto deputato nel collegio di Tolmezzo dal 66 al 74 e poi nei collegi di Gemona e Osoppo) portò evidentemente grosse conseguenze sul piano della politica nazionale con l’allontanamento anche di Giolitti.
Altro problema di carattere nazionale con evidenti risvolti in chiave locale, il difficile rapporto Chiesa e Stato. Nel 1870 con la breccia di Porta Pia e il successivo plebiscito anche Roma venne annessa all’Italia. Il governo italiano nel 71 si trasferiva da Firenze a Roma e con la legge delle guarentigie regolava i rapporti con il Vaticano garantendone l’extraterritorialità. Pio IX rifiutò il compromesso e spinse la sua intransigenza al punto di proibire ai cattolici di partecipare alla vita politica.
Il pregiudizio che derivò per lo sviluppo civile e democratico del paese ricadde anche sul Friuli, per una analoga intransigenza dell’Arcivescovo Andrea Casasola. A Tolmezzo l’arcidiacono don Pietro Rossi “cercava di mantenere la buona armonia nei rapporti con il Sindaco” (De Pauli), ma anche tra i preti ci sono i moderati e gli estremisti, e il Consiglio comunale fu chiamato a prendere provvedimenti contro il cappellano dell’Ospizio don Francesco Morassi che durante la benedizione delle case se l’era presa con una bandiera e aveva invitato la proprietaria a buttarla nel letamaio.
A livello nazionale la posizione dei cattolici mentre restava intransigente sul piano politico si apriva su quello sociale, finendo per interferire con la politica del governo. A Tolmezzo successore di don Rossi fu nominato don Liberale già noto per il suo impegno nel sociale. Ma proprio per questo il Comune cui spettava il diritto di nomina non gli diede mai il placet e restò a Tolmezzo per sei anni solo come economo spirituale.


Gli ultimi decenni dell’Ottocento.

Il problema principale di Tolmezzo e della Carnia resta quello di recuperare il ritardo di sviluppo sotto il profilo economico e sociale.. Uno studio di G.B. Lupieri letto in occasione dell’apertura della sessione agraria di Tolmezzo nel 1857 riassume in termini drammatici la situazione del popolo, dimostrando, così sottolinea Gino di Caporiacco “come il nefasto sistema tributario austriaco (che altri inspiegabilmente lodano per la sua millantata “tenuità” abbia aggravato sensibilmente le condizioni della Carnia, costringendo i suoi abitanti ad emigrare sempre in maggior numero”.
A livello romano sono gli anni dell’alternanza tra destra e sinistra, del costituirsi del partito socialista, dell’avvio d’una politica coloniale. I primi anni dell’unità, il governo era stato in mano alla destra con uomini di valore come Sella Ricasoli e Minghetti ma “non riuscì a dimostrare una effettiva capacità di aderire alla realtà del paese, chiuso come era nel suo dottrinarismo” (Camera-Fabietti). La sinistra salì al potere nel 76 con Depretis ed un programma che prevedeva l’allargamento del diritto di voto, il decentramento amministrativo, l’istruzione elementare obbligatoria, laica e gratuita, la riforma fiscale con l’abolizione della tassa sul macinato.
Nei fatti Depretis con la pratica del trasformismo, contribuì ad appiattire la vita parlamentare. Con la riforma elettorale, l’elettorato passò da mezzo milione a due milioni di elettori, ma la riforma escludeva dal diritto le masse operaie e contadine. Fu abolita la tassa sul macinato, ma si continuò a praticare di norma la tassazione indiretta, che grava in maniera indiscriminata su ricchi e poveri.
Essendo tuttavia la sinistra espressione della borghesia e non della proprietà terriera, ebbe in quegli anni un grande impulso l’industrializzazione.
In politica estera nell’82 l’Italia aderì alla triplice alleanza con la Germania e l’Austria, suscitando una forte reazione irredentista nei territori italiani ancora occupati dall’Austria. Lo studente triestino Guglielmo Oberdan fu giustiziato perché stava preparando un attentato contro l’imperatore Francesco Giuseppe.
Si assiste anche all’esordio coloniale dell’Italia che punta sull’Eritrea, l’unico territorio rimasto ancora disponibile.
Nel ’91 messo in minoranza Crispi, dopo un breve governo Di Rudinì, ebbe l’incarico di formare il governo il liberale Giolitti, ma il suo atteggiamento equilibrato nei confronti delle prime rivolte popolari contadine e la ventilata idea di proporre in parlamento l’imposta sul reddito, irritò la classe dirigente. Come s’è già visto, fu travolto dallo scandalo della Banca Romana. Anche se non gli si poteva imputare nulla di preciso “sotto pretesti morali si nascosero pretesti politici immorali derivati dal timore delle classi privilegiate”. Tornò al potere Crispi instaurando una politica interna di stampo autoritario e riprendendo il programma di espansione coloniale. Ma fu un disastro. Nella sconfitta di Adua caddero più di seimila soldati italiani, e fu costretto alle dimissioni.
Negli ultimi due anni del secolo la tensione sociale giunse all’esasperazione. A Milano il generale Bava Beccaris represse nel sangue con un centinaio di morti, una manifestazione di protesta per l’aumento del prezzo del pane, e fu per questo decorato dal re, che scelse come primo ministro un generale il Pelloux, per far passare delle leggi che riducevano il ruolo del parlamento a favore di quello del re. Nel luglio del novecento l’anarchico Gaetano Bresci uccise a Monza Umberto I, per vendicare i caduti di Milano del ’98. Dopo un breve ministero dell’anziano Zanardelli, gli succede Giovanni Giolitti “la personalità politica più autorevole e significativa d’Italia (Camera-Fabietti).
Quale il riscontro locale della politica nazionale? Destra e Sinistra non erano dei veri partiti a livello nazionale, ed anche a livello locale la politica si muoveva attraverso dei comitati elettorali che si formavano ad ogni elezione in appoggio ai singoli candidati e quindi “a carattere episodico e sporadico”(Renzulli). Lo scarso interesse per la politica fa sì che inizialmente si ricorra addirittura a candidati d’importazione e nel collegio elettorale carnico viene eletto Giacomelli genero di Quintino Sella. Nel 76 a sorpresa ebbe la meglio Giacomo Orsetti di Imponzo, rappresentate della sinistra. Ma nel 80 il collegio è di nuovo in mano alla Destra con il colonnello Di Lenna di Udine. Nell’82 l’esigenza di avere un rappresentante carnico viene rappresentata dall’ing.Linussio, che rinuncia alla candidatura ma si batte presiedendo il Comitato elettorale a favore di Orsetti che viene nuovamente eletto. Nell’86 rivinse Di Lenna.
Si veniva intanto prendendo coscienza della necessità d’una partecipazione alla politica più attiva anche per favorire la soluzione dei problemi locali. Si formò un movimento progressista canico collegato a quello friulano, rappresentato dagli ing. Linussio e Gortani e dal medico Magrini. Ma, manco a dirlo, nelle elezioni dell’86 iniziarono le divisioni che favorirono ancora una volta la elezione di Di Lenna. Si erano presentati assieme Orsini e Magrini dividendosi i voti dei progressisti e favorendo l’elezione dell’avversario.
Nel 90 Magrini si trova in concorrenza con Gregorio Valle di Fusea, maestro di ginnastica e capitano dei pompieri, la Carnia si divide con il canal di Gorto per Magrini e quello di S.Pietro per Valle, il ceto medio con il primo, il ceto basso con il secondo che imposta una campagna elettorale populista. Vinse Valle, che rivinse senza avversari nel 95, e nel 96 contro l’ing. Federico Marsilio di Sutrio schierato con Di Rudinì. Valle a livello locale aveva saputo mettere in piedi una efficiente macchina elettorale ed a Roma stava attento a non mettersi mai controvento, appoggiando Crispi, e passando con Di Rudinì solo quando si rese conto che per il primo non c’era più futuro politico.
Al di là delle lotte politiche a livello locale il primo problema era quello delle infrastrutture necessarie per superare l’isolamento. Solo nel ’72 il Parlamento approvava la realizzazione della linea ferroviaria Udine-Pontebba che sarà inaugurata il 30 ottobre 1879. Nello stesso anno hanno inizio i lavori per la strada nazionale carnica da stazione per la Carnia alla Mauria che si concluderanno nel ‘90. Negli stessi anni (1883-85) viene sistemata anche la Strada di S.Pietro da Caneva a Paluzza per Formeaso con la realizzazione del ponte in muratura sul But a Zuglio.
“Il trasporto materiali industriali e delle derrate alimentari avveniva con carri trainati da cavalli e guidati da “carradori” e i costi erano alti. Ogni paese aveva la sua impresa trasporti e il suo servizio di trasporto passeggeri e postale” (De Pauli) .
Allo sviluppo in sede nazionale dell’industrializzazione del paese, fa riscontro anche in sede locale la ripresa dell’attività di quella che era stata la gloriosa Fabbrica Linussio. Dante Linussio rimise in movimento una sessantina di telai mossi a forza idraulica con la forza della roggia. Un’attività che riuscì ad espandersi dopo il 1890 e che si concluse con la distruzione della fabbrica durante la ritirata di Caporetto.
Il settore economico di maggiore rilievo era quello delle utilizzazioni boschive. Il legname transitava su zattere che si formavano a Cedarchis o ad Ovaro, per scendere sul Tagliamento. Dal 79 il legname poteva essere caricato su ferrovia a Stazione per la Carnia, ma il sistema della fluitazione durò ancora fino al 1910 cioè all’apertura del tronco Carnia-Villa Santina.
Parte del legname era anche trasformato in loco ed infatti a Tolmezzo al tempo erano attive tre segherie, fra queste “l’opificio meccanico a forza idraulica di Pillinini Giuseppe”, mentre a Sutrio già allora “si fabbricavano ottimi mobili di legno in settanta piccoli laboratori a prezzi bassissimi e c’erano ben dodici officine per la fabbricazione di serrature in ferro.
Importante per lo sviluppo del settore fu nel 1874 la costituzione del Consorzio Boschi Carnici al quale vennero assegnati i boschi demaniali corrispondenti ai 39 boschi che Venezia aveva “bandito” per gli interessi del suo Arsenale.
Ma già allora si avvertiva la difficoltà di stare sul mercato con un prodotto con alti costi di estraduzione per la complessa orografia della Carnia, e si chiedevano tariffe agevolate di trasporto per poter competere con il legname che veniva dall’Austria e che aveva avuto delle agevolazioni nei trattati della Triplice Alleanza. Importante per la diffusione capillare sul territorio l’agricoltura. Era finalizzata all’autolimentazione, perché i campi solo al fondovalle potevano essere lavorati con l’aratro, mentre nella maggioranza dei paesi si doveva lavorare a vanga. Anche l’Associazione agraria Friulana attiva a Udine già dal 1855 con la sua “Cattedra ambulante di agricoltura che arrivò anche in Carnia a svolgere la sua funzione divulgativa e formativa” (De Pauli), consigliava di puntare sull’allevamento del bestiame curando i pascoli e il buon foraggio.
La lavorazione del latte però avveniva con il sistema della latteria turnaria (si prestavano il latte a turno che veniva lavorato dai singoli produttori) con il quale non si poteva garantire la qualità del prodotto. Notevole fu il salto di qualità determinato dalla nascita delle latterie sociali con l’assunzione d’un casaro specializzato, la prima in Carnia fu quella di Collina, la terza quella di Illegio, ad opera del parroco don Piemonte, nel 1883. Nello stesso anno se ne attivò una anche a Tolmezzo per merito dell’Ing. Andrea Linussio. E la fine del secolo fu caratterizzata dalla diffusione delle latterie in tutta la Carnia.
I Comuni favorivano lo sviluppo del settore concedendo in uso i terreni comunali e gestendo delle malghe. Tolmezzo già dal 600 gestiva il monte Chiaula di proprietà in virtù dei diritti feudali dell’età patriarcale (ancor oggi la malga si chiama Chiaula tumicina) stipendiando direttamente dei pastori (Puppini)
La gestione dei boschi di proprietà è in quegli anni per i Comuni il problema che impegna maggiormente i Consigli comunali. Ci sono le famiglie che non hanno boschi in proprietà, e che sono costrette a rifornirsi di legna eludendo il controllo delle guardie boschive, ci sono le famiglie povere che non hanno proprietà sufficienti per mantenere una mucca e che suppliscono con l’allevamento di una o più capre, ma questi animali sono un pericolo per i boschi perché brucano i nuovi germogli e le nuove piantine. Per sconsigliarne l’allevamento delle capre si ricorre ad una tassa supplementare sollevando nel 1880 la protesta al Consiglio Comunale, di tutti gli allevatori che si chiedono in termini coloriti e convincenti:”nel secolo della folgorante miseria, è forse questo il principio di sufragare chi procura con i mezzi più onesti sostenere le miserabili loro famiglie?”(De Pauli).
Come s’è visto lo sviluppo di Tolmezzo è sempre stato legato alla sua vocazione emporiale e commerciale alla confluenza delle valli carniche. Pure nell’Ottocento ha mantenuto questo ruolo anche se va rilevato che mancavano iniziative di largo respiro. La mentalità conservatrice porta ad una continua lamentela dei commercianti nei confronti del Comune per la concorrenza sleale che avrebbero fatto gli ambulanti con la conseguente richiesta di aumentare la tassa per l’occupazione del suolo pubblico, per riequilibrare il livello della concorrenza.
Tradizionale era già il mercato del lunedì che occupava la piazza e via Castello (via Roma). Importanti per il bestiame i mercati del primo lunedì di marzo e di novembre, con le capre fuori porta di sopra, a dar il nome a quella piazza ed i maiali in piazza s. Caterina e poi, a seguito delle proteste dei residenti, fuori porta di sotto a dare il soprannome di “place dai purcitz” alla attuale Piazza Domenico da Tolmezzo.
Significativa nel periodo la trasformazione del piano terra del Palazzo Garzolini nel Caffè Manzoni, e da segnalare lo sviluppo dell’attività commerciale di Leonardo De Giudici da Casanova che riuscì far fortuna con un semplice negozio di alimentari e ferramenta sull’attuale via Matteotti. Nel 1990 fu nominato primo Presidente della Banca Carnica, e si trasferì ad abitare in piazza nel palazzo De Giudici. Nell’84 aveva acquistato a Lovaria di Pradamano una vasta proprietà terriera, oggi sede della Fondazione Emilia Muner-De Giudici residenza protetta per anziani.
Fra le attività connesse al commercio possono essere anche ricordate la fabbrica di cappelli di feltro e lana della ditta Arcani Nicolò, e la fabbrica di birra Screm-Nazzi in via della Torre che provvedeva al consumo di tutta la Carnia.
Come si conviene ad un Capoluogo, Tolmezzo era illuminata di notte. Ma non c’era di che restare abbagliati, nel 1873, per quei 13 fanali contenenti una macchina completa per lume a petrolio, sostenuti da un braccio pure di ferro (De Pauli) sui quali Nazzi Giuseppe impresario della illuminazione pubblica cercava di risparmiare al punto che dovette venir richiamato dal sindaco.
Sotto il profilo sanitario Tolmezzo assolveva alle funzioni di capoluogo come sede dell’ospedale. Già nel ’67 al posto del malsano edificio di S.Antonio si era costruito l’Ospizio di Tolmezzo, ove oggi sorge, su piazza Centa, la parte nuova del Tribunale. Ma per dare l’idea di cosa si intendeva per ospedale basti pensare che solo nel 1901 si istituì il posto di medico dell’ospedale. Fino ad allora prestava servizio in ospedale il medico condotto. In quell’anno si portarono a tre i medici condotti: uno per l’Ospizio uno per Tolmezzo ed Illegio ed uno per le altre Frazioni, con obbligo di residenza a Casanova. Metullio Cominotti medico dell’Ospizio fu autorizzato anche ad aprire una clinica privata “casa di salute per malati di chirurgia con annessa sala per operazioni chirurgiche, sull’attuale via Raimondo della Torre.
La sinistra al potere si era impegnata a livello nazionale per l’introduzione dell’istruzione elementare obbligatoria, ed in linea con il programma, anche Tolmezzo si impegnò sul tema, riprendendo le iniziative già intraprese nel periodo della dominazione austriaca. Nel 1871 il Consiglio Comunale dovette prendere atto che nessuno dei maestri aveva i titoli previsti dalla legge. Ad eccezione di uno erano tutti sacerdoti, perché, come già detto si potevano pagare di meno. Solo nell’87 si ebbero i primi esami ufficiali di licenza elementare, con undici promossi su sedici partecipanti.
L’anno successivo la riforma dei programmi di Aristide Gabelli portò l’esame di Proscioglimento dell’Obbligo alla classe terza. Restava il problema del reclutamento degli insegnanti mancando in loco una scuola magistrale e con l’inizio del nuovo secolo si ebbe una immigrazione di insegnanti dall’Emilia Romagna, tra questi anche Benito Mussolini, che nell’anno scolastico 1906/7 si trovò a gestire una quarta elementare di oltre trenta bambini tra cui molti pluriripetenti. L’uomo che si dimostrerà capace di dominare l’Italia per un ventennio, si trovò nella condizione di non riuscire a portare a termine l’anno scolastico, perché come lui stesso dirà nel suo diario “non ero stato capace di risolvere sin da principio il problema disciplinare”. Dando le dimissioni al direttore scolastico Marchetti scriveva: “Non intendo di essere angustiato quattro ore al giorno e non sopporto la prostrazione spirituale che ne consegue”.
Non dovevano essere ragazzi facili se anche il sacerdote insegnante Gio Batta De Marchi per giustificare l’esigenza della costruzione dell’Asilo infantile scriveva che “i fanciulli che si iscrivono nelle scuole elementari, sono così viziati ed indisciplinati da rendere molto difficile se non impossibile di indirizzarli agli studi e alla vita della operosità e della virtù” La sua convinzione sulla necessità di attivare l’Asilo lo portò a regalare il terreno per la sua costruzione, nella via che ora porta il suo nome, ma i lavori di costruzione iniziarono soltanto nel 1910.


Nell’età giolittiana: il decennio d’oro.

Mi piace dare questo titolo al primo decennio del novecento della storia di Tolmezzo e della Carnia per sottolineare un periodo nel quale emerge uno spirito d’intrapresa che dovrebbe essere portato ad esempio e stimolo anche ai giorni nostri. Se è stato possibile, perché non lo può essere ancora!
Il momento favorevole a livello locale coincide con un eguale momento a livello nazionale. “L’Italia va incontro ad un promettente sviluppo delle sue strutture economiche e sociali. Giovanni Giolitti che nel primo quindicennio presiede tre ministeri, sa farsi interprete delle nuove esigenze legate all’imponente rigoglio dell’economia italiana del quale, naturalmente, anche il proletariato pretende di poter godere i frutti, imponendo le proprie rivendicazioni mediante un’energica azione sindacale” (Camera-Fabietti).
E’ in atto anche a Tolmezzo un confronto vivace tra socialisti e cattolici. Un confronto che però dà luogo ad una gara in positivo. “Originale e caratteristico della Carnia rispetto al Friuli lo sviluppo del cooperativismo socialista, accanto al filone laico liberale e cattolico.(Bof) Il 29 aprile 1906 a Villa Santina venne stipulato l’atto costitutivo della Società Anonima di Consumo Carnica. Presidente Riccardo Spinotti socialista che sarà per più legislature sindaco di Tolmezzo e che ben a ragione (al di là del colore politico) potrebbe venir considerato il “Giolitti” locale. Nel novembre dello stesso anno il medesimo gruppo dirigente d’ispirazione socialista darà vita alla Cooperativa Carnica di Credito.
Nel corso dell’anno risponde la parrocchia con la costituzione della Cassa Rurale Mater Boni Consili, riprendendo l’esperienza della Cassa rurale di Villa Santina già attiva dal 1887. Nasceva dal Circolo Cattolico costituito l’anno precedente dal cappellano don Francesco Roiatti “un piccolo ammirevole manipolo di resistenti al dilagare del socialismo carnico” (Tessitori).
Si formano nello stesso periodo a Tolmezzo ed in Carnia le cooperative di lavoro che nel 1910 si riuniscono in un Consorzio, capace di appaltare lavori consistenti come quello del ponte di Avons di cui si è già detto.
Lo sviluppo delle cooperative di lavoro è legato alla necessità di favorire le occasioni di lavoro in loco. Infatti ancora nel 1911 si poteva calcolare che meno del 2% degli abitanti trovava occupazione sul territorio “mentre la sola emigrazione temporanea toccava punte superiori al 30%”. Lo sviluppo delle cooperative di credito è legato alla necessità di utilizzare nell’interesse dei lavoratori, le ingenti rimesse operate dagli emigranti. Le Casse postali infatti, drenavano depositi in loco per fare investimenti altrove, le banche espressione della borghesia come la Carnica o il Banco di sconto Calligaris, privilegiavano la clientela borghese o le amministrazioni comunali. Con le casse rurali si è creato invece un circolo virtuoso tra finanza ed economia locale, circuito che si integra con l’intervento nel campo del consumo, con la funzione di calmiere che la cooperativa carnica svolge a Tolmezzo, dove acquista come sede l’ex albergo Leon d’oro in piazza, ed amplia aprendo diversi spacci in vari paesi della Carnia, e infine consolida con l’attivazione del Panificio e del mulino collegato. Si favorisce così il diffondersi dell’uso nell’alimentazione del pane a prezzo contenuto, integrando l’alimentazione a base di polenta.
Al confronto tra cattolici e socialisti sul piano delle iniziative, faceva riscontro l’acceso dibattito sul piano culturale.
Il movimento socialista carnico nacque in Val Pesarina con la costituzione il 4 gennaio del 1900 del “Circolo Educativo Popolare Democratico” che si impegnava a fornire ogni frazione del giornale “L’Avanti”. Parroco è don Piemonte tanto attivo nell’organizzare la cassa rurale e le cooperative operaie in concorrenza con quelle di ispirazione socialista, quanto cattolico fondamentalista. Ai primi comizi tenuti dall’on Rondani il parroco chiama a sostenere il contradditorio l’avv. Brosadola di Cividale. A Tolmezzo invece all’on socialista non viene neppure consentito di parlare in Municipio.
La caratteristica fortemente anticlericale del movimento che portò a mitizzare e idealizzare Giordano Bruno per sottolineare il credo nella libertà di pensiero contro il dogmatismo e l’oscurantismo clericale, non poteva non diventare, anche per la Carnia, una provocazione per il risveglio d’un dibattito sul piano culturale. Al secondo congresso provinciale del Partito a Udine nel 1902 (Ellero) oltre alle sezioni di Prato Carnico, Ampezzo, e Treppo Carnico già presenti l’anno prima, parteciparono anche le sezioni di Tolmezzo, Fusea, Enemonzo e Paluzza.
Scrive Laura Rossi che “Il primo scontro politico tra i movimenti che s’erano affermati durante il primo decennio del secolo, avvenne alle elezioni politiche generali del 1909. Per la prima volta in Carnia esse furono non soltanto una formalità legale che sanciva le decisioni della borghesia liberale, ma una vera e propria battaglia, il cui risultato fu incerto fino all’ultimo”. Infatti nelle elezioni del 1904 il candidato socialista Dino Rondani ottenne 400 voti contro i 1850 dell’eletto candidato liberale Gregorio Valle. Ma nel 1909 quando per i socialisti si candidò Spinotti già Sindaco di Tolmezzo e fondatore della Cooperativa Carnica si dovette andare al ballottaggio. Rivinse Valle ma per solo trecento voti, e perché contro il socialista si erano mobilitati i cattolici. Già nel 1904 i cattolici avevano visto accantonato il “non expedit” con la formula che permetteva loro di diventare deputati, ma vietava loro di proclamarsi tali in quanto cattolici, e sospendeva il divieto di partecipazione al voto, nei collegi in cui si presentavano ufficialmente candidati socialisti.
Spinotti per il prevalere nel partito del massimalismo si ritirò dalla vita politica nel 1914 dando anche le dimissioni dalla cooperativa carnica. Nelle elezioni del 1913 le prime a suffragio universale, almeno per quanto riguarda gli uomini, inizia la carriera politica il giovane Michele Gortani che ha la meglio sul candidato socialista Luigi Sala, un operaio di Tolmezzo.
La Carnia fu rappresentata a Roma per venticinque anni da Gregorio Valle da Fusea, che cosa si ricorda dell’opera di questo rappresentante della Carnia a Roma? Non ne ho trovata traccia! L’unica traccia il suo successo sul piano personale che lo ha portato a sposare in Municipio a Tolmezzo il 2 ottobre del 1907, la figlia dell’ambasciatore russo a Roma con un fasto che lascia tracce nelle memorie scritte del tempo. Si può quindi immaginare che la visita della nobildonna Kononof Vasiliewich a Fusea si sia tramandata per anni nelle “storie” che i vecchi raccontavano nelle stalle del paese. Gregorio, lasciato il seggio parlamentare a Michele Gortani, pare abbia seguito la moglie in Russia incappando nella rivoluzione d’ottobre del ’17.
Il decennio d’oro comunque merita questa definizione anche perché furono quelli gli anni d’una vera rivoluzione sul piano della qualità della vita nei nostri paesi: l’arrivo della “luce”, l’introduzione dell’energia elettrica. Nelle case fino a ieri illuminate in qualche modo con qualche lampada, si è accesa una lampadina. Ed anche nelle strade dei paesi, sono arrivati i primi lampioni, mentre a Tolmezzo si sono sostituiti quelli a petrolio.
E’ un fatto sul quale anche le storie locali spesso sorvolano. A mia avviso, è il fatto che ha cambiato anche il modo di vivere nelle case, il modo di relazionarsi non essendo più costretti ad andare a letto “con le galline”, come si era soliti dire.
Ad Ampezzo di elettricità si comincio a parlare nel 1901. Il Consiglio Comunale aveva deciso di gestire il problema in proprio ed a proprie spese. Ma poi non se ne fece nulla e fu un costruttore edile Luca Nigris a realizzare l’impianto e Ampezzo fu uno dei primi paesi a fruire dell’energia elettrica., assieme ad Ememonzo che utilizza la centrale costruita da Giovanni Venier le 1901 Anche nella conca tolmezzina, per le frazioni in destra But è stata la Ditta Mazzolini a sfruttare per la produzione dell’energia elettrica i salti della roggia che facevano funzionare i mulini di Caneva. Nella zona nord di Tolmezzo, ad un passaggio della roggia, non a caso c’è ancora via dell’Officina Elettrica, a ricordo della centrale di “Luigi Gressani che utilizza un salto d’acqua di 60 cavalli dinamici e una macchina a vapore di 40 HP, servendo nelle ore notturne la rete di illuminazione pubblica e privata e in quelle diurne alcuni insediamenti industriali” (A.Cafarelli). Così nella guida della Carnia di Ciani e Seccardi del 1901 per Tolmezzo si può specificare che “il paese è illuminato a luce elettrica”.
Degno di nota il caso di Paluzza ove nel 1911 si costituì la Cooperativa per la produzione di energia elettrica SECAB. L’idea di mettersi assieme per sfruttare a vantaggio di tutti una risorsa locale come l’acqua, era una idea forte. Avrebbe dovuto trovare molti altri imitatori in altre parti della Carnia… Ma non è facile, come potrebbe sembrare, imitare gli esempi positivi!
E’ passato solo un secolo, ma per capire quanta acqua sia passata sotto i ponti in questo anni, vale la pena di soffermarsi a considerare quale fosse la viabilità del tempo che si desume dalla guida citata.
La valle del But si saliva soltanto da Terzo e Zuglio, perché sarà solo per “merito” della guerra che il generale Lequio aprirà la strada per Imponzo. A Formeaso la strada attraversava per Cedarchis per poi risalire la valle del Chiarsò. Gli abitanti di Imponzo dovevano percorrere la carrozzabile per Zuglio fino alla Osteria Stazione di Imponzo “da dove si stacca la pedonale che attraversa il But ed in circa quindici minuti conduce al paese”. Analoga o quasi la situazione per Illegio, con la carrozzabile fino alle falde meridionali del Monte Strabut fino ai Rivoli Bianchi “dove la strada si cangia in mulattiera e prosegue fino ad Illegio”. Per Fusea invece si lascia la carrozzabile a Casanova “da dove per una buona mulattiera in circa ¾ d’ora si è al paese. Per Cazzaso si può proseguire sulla stessa mulattiera per un’altra mezz’ora oppure vi si può arrivare “per il sentiero Florenzis in 35 minuti”



La prima guerra mondiale.

Nell’Europa d’inizio secolo maturavano una serie di contrasti, tra l’Austria e la Russia sui Balcani, tra la Francia e la Germania per l’Alsazia e Lorena, fra Germania e Inghilterra per la leadership, fra l’Austria e l’Italia per Trento e Trieste. L’uccisione a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando ad opera di due nazionalisti serbi, fu la miccia che scatenò l’incendio. Da una parte si schierarono successivamente l’Austria la Germania la Turchia e la Bulgaria, dall’altra la Serbia la Russia la Francia l’Inghilterra, il Giappone, la Romania, gli Stati Uniti, assieme all’Italia.
L’Italia che già dal 1882 aveva firmato l’alleanza difensiva (la Triplice) con Germania e Austria-Ungheria in un primo momento si dichiarò neutrale (3 agosto 1914), l’opinione pubblica si divise tra interventisti e neutralisti con diverse motivazioni. Non arrivando a conclusione la trattativa con l’Austria per ottenere i territori italiani di confine in cambio della neutralità, il governo Calandra con il patto segreto di Londra decise l’entrata in guerra a fianco dell’Intesa contro gli Imperi Centrali. Il nostro esercito si confronterà quindi con quello austriaco nella veste di traditore. L’alto comando italiano con il generale Cadorna affidò la zona Carnia alla XII armata, comandata dal Generale Clemente Lequio, che si collegava sulla sinistra con le truppe della IV armata che operavano in Cadore e sulla destra con quelle della II Armata che operavano nella valle dell’Isonzo, avendo di fronte la X Armata austriaca. Scoppiata la guerra il 24 maggio 1915 l’Austria martellò a lungo il fronte carnico e particolarmente la testata della val But, per sgominare la resistenza opposta dai battaglioni Tolmezzo e Val Tagliamento..
La retorica del periodo fascista stese un aura da epopea sulla prima guerra mondiale, ma fu in realtà un massacro anche per la concezione del generale Cadorna che non pensava mai a risparmiare vite umane. Per la Carnia in particolare, a ridosso del confine si può parlare d’un vero martirio, diventato poi immane tragedia, con l’occupazione austriaca dopo la ritirata di Caporetto.
L’Austria sospettando il voltafaccia dell’Italia aveva preparato il fronte, mentre il generale Lequio si troverà a dover organizzare dal nulla le infrastrutture di collegamento e la logistica. Il suo nome per questo è rimasto legato allo sviluppo della viabilità della valle del But e del Chiarsò. L’Austria tentò inizialmente lo sfondamento proprio su questo fronte e i due battaglioni Tolmezzo e Val Tagliamento costituiti prevalentemente da soldati carnici, cui furono saltuariamente compagni fanti siciliani ed alpini piemontesi, (Paschini) si guadagnarono la medaglia d’argento (pensavano d’averla meritata d’oro!) proprio per le operazioni condotte nei primi mesi sulle vette dal Pal Piccolo, Pal Grande e Freikofel . I tentativi di sfondamento da parte degli austriaci continuano anche durante l’inverno e fino all’estate successiva.
A subirne le conseguenze fu anche la popolazione civile dei paesi a ridosso del confine, Forni Avolti e Paularo sono per tutti questi mesi sotto il tiro dei cannoni austriaci. Molti sono i danni subiti dalle abitazioni. Ma è tutta la Carnia ad essere in qualche modo coinvolta nelle operazioni militari. Ci sono gli ospedali di prima linea come quello di Salino per la Val Chiarsò. Ci sono gli acquartieramenti per le truppe che si danno il cambio al fronte.
C’è il coinvolgimento della popolazione a supporto del fronte. Memorabile a questo proposito la pagina scritta dalle portatrici carniche. Il loro impegno fu voluto dal generale Lequio che aveva visto nella loro abitudine alle fatiche, nella loro abitudine a portare nelle gerle pesi di oltre mezzo quintale, la strategia per il rifornimento di munizioni, su un fronte che non era stato infrastrutturato, come quello austriaco, per prepararsi alla guerra. Nella relazione del generale Armando Diaz vengono definite “belle ed eroiche”, e diventano elemento caratteristico della epopea della guerra.
La situazione era ben diversa se la andiamo a rivedere attraverso i diari storici dei parroci del tempo. Nel ’16 don Larice a Illegio inveisce contro il libertinaggio delle donne, civettuole nel contegno, sfacciate nel portamento, accidioso, non curanti svolgiate, sentono il bisogno di emozioni che sono in contrasto perenne con la vita di famiglia…” Gli fa eco da Paularo don Della Pietra segnalando che “nelle domeniche pomeriggio è dato vedere l’indecente spettacolo dato da giovinetti e giovinette che percorrono le vie del paese in preda all’ubriachezza”. “Ma il peggio, rilancia da Treppo Carnico don Solari, “è che molte donne e ragazze per cuor di guadagno si sono offerte come portatrici di viveri agli ufficiale e soldati al fronte. L’immoralità nel parlare e negli atti è al colmo. Si contano varie case di prostituzione. Belzebù trionfa, dove si andrà di questo passo?”
Quale la verità? E’ probabile ci sia una esagerazione nelle testimonianze dei parroci. Il clima culturale in Carnia all’inizio del secolo stava cambiando profondamente. Più che altrove si diffondeva il socialismo nella versione anarchica, e le prime affermazioni di libertà da parte delle donne, dai parroci ultraconservatori possono essere state viste come gesti di libertinaggio. C’è poi da tenere in considerazione il fatto che tutto il territorio era al fronte, tutto il territorio viveva in guerra,con ciò che questo può significare sotto il profilo psicologico e sociologico.
Come dicono anche le parabole, in un campo di grano c’è sempre qualche gambo di loglio, ma non per questo viene meno il valore del grano. Al di là delle possibili interpretazioni, falsate da punti di vista preconcetti, resta il fatto di un migliaio di donne carniche utilizzate come portatrici di armi e munizioni, per supplire alla mancata infrastrutturazione del fronte. Tra loro qualche eroina ed anche qualche donna di facili costumi, ma in mezzo tante donne che avevano trovato una insperata fonte di guadagno, mettendo a frutto la loro capacità di portatrici. Veniva loro riconosciuto un compenso di lire una e cinquanta centesimi a viaggio, corrisposto mensilmente.
La gerla è per eccellenza l’attrezzo per il trasporto sulle montagne carniche, e la gerla nella tradizione è un attrezzo tipicamente femminile. La funzione di portare e quindi sempre stata della donna.. C’è voluta una guerra perché il fatto fosse riconosciuto. Le medaglie si conquistano in guerra, e per la guerra alle portatrici carniche è stata conferita la medaglia e il titolo di cavaliere. Ma in guerra hanno fatto soltanto ciò che erano solite fare ogni giorno, da sempre, anche in tempi di pace. Per questo, giustamente, nel cortile dell’Istituto Scolastico che nel nome di Albino Candoni è dedicato ai caduti della prima guerra mondiale, il monumento alla donna carnica porta la dedica : “Alla donna carnica che ha vinto la pace”.
A rendere più difficile la situazione, al fronte ed in Carnia, ci si metteva anche il clima. Don Facci segnala da Rivalpo che “l’inverno è questa volta rigidissimo: dopo continue ed abbondanti nevicate nella prima quindicina del mese, nella seconda soffia un vento gelido di tormenta, il giorno 24 il termometro segna -15. In chiesa s’ebbe gelato il vino di Messa, il pavimento della sacrestia in cemento andò spaccato. Nei cuori però, nelle coscienze c’è più freddo ancora, più ghiaccio”. Se così a Rivalpo si può immaginare che cosa c’era lo stesso giorno sulle cime del Pal Piccolo e Pal Grande sia nelle trincee, sia nel cuore di chi si aspettava il prossimo assalto del nemico
C’erano infine i bombardamenti aerei. E’ stata questa infatti la prima guerra nella quale entrò in servizio l’aviazione. Gli abitanti di Tolmezzo e della Carnia videro un giorno con stupore e meraviglia una macchina volante, della quale avevano solo sentito parlare. Scrive don Facci il 14 settembre : “Alle nove circa una aeroplano nemico passa la frontiera e vola sulla Carnia: è il primo aeroplano che solca il cielo carnico, nel popolo un senso acuto di stupore di timore”. Acuito dal fatto che la comparsa dell’aereo s’accompagna alla notizia che gli austriaci hanno occupato il Lodin e sono scesi fino a Ramaz.
In seguito anche i carnici impararono a loro spese che non c’era nulla di poetico in quei voli. Videro cadere le prime bombe e videro i primi famosi duelli aerei, con i velivoli italiani che decollavano dall’aereoporto di S.Caterina a Udine, ma anche dal piccolo campo di aviazione allestito nella piana di Cavazzo Carnico.
Poi si ebbe un alleggerimento della pressione perché l’Itala aveva sferrato una offensiva sull’Isonzo a cui gli austriaci avevano risposto con la Strafexpedition, spedizione punitiva del tradimento italiano sul lato sinistro del nostro schieramento sull’Altopiano di Asiago.. Si forma in questo periodo la leggenda dei soldati italiani ed austriaci che contrapposti sulle trincee in cima alle montagne, in una situazione di stallo, finiscono per fraternizzare, imprecando contro la “sporca guerra”.
Ma l’anno successivo, il 1917 l’iniziativa austriaca si spostò sull’Isonzo e il 24 ottobre il fronte cedette a Caporetto. Le truppe dislocate in Carnia dovettero ritirarsi in fretta per evitare l’’accerchiamento. Gli austriaci giunsero a Tolmezzo la sera del 31 ottobre scendendo dal Bosco Grande. Si tentò anche di arginare l’avanzata del nemico sul Tagliamento, con i nostri schierati sulla riva destra tra Verzegnis e Villa Santina. Poi al btg. Tolmezzo fu dato l’ordine di risalire la Val Tagliamento ma al Mauria fu accerchiato e fatto prigioniero. Ci furono degli scontri memorabili al forte del Monte Festa per ritardare l’avanzata degli austriaci scesi dalla Val Fella ed a Pielungo per sfondare lo sbarramento degli austriaci che salivano ormai da Spilimbergo.
Alla ritirata delle truppe si accompagnò l’esodo della popolazione della Carnia. Un terzo degli abitanti si decise per la fuga attraverso il Rest e si disperse in tutta l’Italia fino alla Sicilia. 20.000 i fuggiti e 32.000 rimasti secondo il Paschini che sottolinea “se parvero dure le vie dell’esilio ai primi, ben più duri furono i patimenti della fame ai secondi, ma peggio che la fame li tormentò l’immeritata abiezione nella quale li tenevano i vincitori, mentre i militari avevano dovuto darsi alla macchia nei boschi per evitare la cattività” (Paschini)
“Si decise per la fuga”, scrive lo storico. Detta così pare cosa da nulla. Ma dietro a queste parole c’è l’angoscia di tutto un popolo che deve decidere improvvisamente se sia meglio lasciare ogni cosa e fuggire, o invece restare e subire le angherie dell’esercito occupante. A Tolmezzo su 5521 abitanti, partirono 2855.
I racconti dei rifugiati in Italia sono stati i più diversi. Alcuni hanno fatto positive esperienze di ospitalità e generosità altri hanno subito il peso di accoglienze sopportate. Ma se la sono vista peggio i rimasti, presi tra la fame e l’abiezione dei vincitori come scrive il Paschini.
Per quanto riguarda la fame registra don De Reggi a Sutrio il 2 gennaio del ’18 “Almeno germogliassero le erbe, è questo l’augurio comune. Ogni mezzo satolla: di polenta di crusca, di macinato di pannocchia di grano, radici cotte. La patata diventa cibo di pochi, il condimento scompare, il sale scarseggia, il pepe non se ne parla. I fumatori utilizzano le foglie di noce, i fiutatori usano la genziana alpina polverizzata. Anche i fiammiferi mancano. Ritorna in uso la pietra focaia”.
Per quanto riguarda l’abiezione scrive don Facci il 12 maggio: “Negrieri! Negrieri! Nemmeno il vocabolario dà più parole per definire certi modi e certe persone. Nessuna nazione, nessuna epoca barbara ha fatto quello che vediamo con i nostri occhi. Ieri senza modalità sono strate strappate dalle loro famiglie venticinque ragazze di Paularo ed una sessantina di Cleulis e Timau, oggi un’altra trentina da Paularo. Passano per lo stradone qui sotto piangenti accompagnate dagli urli disperati delle madri…” .
Durante l’estate vennero sottratte tutte le campane delle Chiese. Non sono cose da mangiare ma anche i sentimenti hanno la loro parte. Il 17 settembre si annota a Fusea: “anche la campana minore ci è portata via oggi. Su tante generazioni aveva sparsa la sua voce ora festosa ora mesta, tante generazioni aveva chiamato ai piedi degli altari del Signore”
Poi nell’autunno, come scrive mons Candoni a Cedarchis, “non basta miseria e penuria di mezzi che incrudiscono la vita, e martirizzano la Carnia, compare, cooperatirce di dolore sventura e morte la febbre spagnola” A Illegio l’epidemia si spiegò il 19 ottobre e in pochi giorni ci furono 22 morti.
L’esodo di chi aveva invece deciso di partire, era stato in qualche modo organizzato distribuendo le persone in ogni parte d’Italia.
Il punto di riferimento più importante per i tolmezzini fu la Toscana “a Firenze si costituì il principale centro degli emigrati. Colà furono ricostituite provvisoriamente le amministrazioni locali del Friuli. A capo del comitato costituito dai profughi ivi residenti stava l’eminente scienziato friulano Olinto Marinelli” (Leicht). La Banca Carnica e la Cassa rurale furono invece ricostituite a Lucca.
L’Italia riuscì ad attestarsi al Piave ed a partecipare alla controffensiva finale che si concluse con la battaglia di Vittorio Veneto e l’armistizio del 4 novembre 1918. “Al tocco del 4 novembre le autoblindate ed i bersaglieri giungevano a Tolmezzo risalendo la via del lago di Cavazzo, tre ore dopo giungeva la cavalleria” (Paschini). La guerra si concluse con il disfacimento dell’Impero Asburgico e la nascita della Repubblica austriaca, della Cecoslovacchia, dell’Ungheria e della Jugoslavia, mentre l’Italia otteneva il Trentino e l’Alto Adige, Trieste e l’Istria e per quel che ci riguarda lo spostamento del fronte a Tarvisio.


Fra le due guerre.

“Uscita vincitrice dalla prima guerra mondiale, l’Italia subì una profonda crisi politico-sociale: nel giro di quattro anni le vecchie strutture dello Stato liberale furono travolte e sulle loro rovine il fascismo insediò il proprio potere autoritario. A questo risultato che inizialmente era tutt’altro che fatale, concorsero diverse circostanze: l’inadeguatezza della vecchia classe politica dirigente, le ambiguità del movimento combattentistico, il massimalismo del Partito Socialista, incapace di proporre al paese un’alternativa che non fosse quella della dittatura del proletariato, la volontà reazionaria degli agrari e degli industriali, la scarsa maturità del Partito Popolare (fondato nel gennaio del 1919 da don Luigi Sturzo) che non andò esente da equivoci e confusioni.
Dopo la crisi del ministero Orlando, responsabile di grave imperizia nella condotta delle trattative di pace e di pericolose concessioni alla demagogia nazionalista, si succedettero i ministeri Nitti, Giolitti (che risolse felicemente le nostre pendenze con la Jugoslavia) Bonomi e Facta.
In Carnia la situazione era disastrosa. Rientrati i profughi trovarono un territorio saccheggiato. Purtroppo e spesso il saccheggio era avvenuto per opera dei compaesani e quindi si può immaginare il clima. Mancava il lavoro, le miniere come quella di Fusea erano in crisi, chiudono gli impianti del settore cotoniero a Tolmezzo e le fabbriche di laterizi di Villa Santina. Le cooperative operaie cercano di supplire in qualche modo aiutate dai Comuni che forzano i bilanci pur di appaltare qualche lavoro. Ma poi la difficoltà a pagare crea ulteriori motivi di tensione. Intanto come scrive il Prefetto i socialisti cercano di far proseliti sfruttando il malcontento, Gortani a sua volta non può perdere consenso e minaccia di convincere alle dimissioni tutti i sindaci della Carnia.
Furono anni di scontri violenti nelle elezioni del 20 in Carnia il Partito Socialista aveva avuto la maggioranza nei Comuni di Amaro, Cavazzo, Comeglians Forni Avolti, Lauco Rigolato e Sutrio, i cattolici avevano avuto la maggioranza nel Consiglio Provinciale.
La maggioranza al Comune di Tolmezzo fino alle elezioni amministrative del 1920 era formata dalla aggregazione della linea socialista, capeggiata dall’avv.Spinotti e da quella laico-liberale di cui era esponente G.B. Ciani, i due si alternarono anche nella carico di Sindaco. Nel dopoguerra dopo un breve periodo gestito dal commissario prefettizio Giuseppe Marchi ebbero la meglio i socialisti con Spinotti che però si dimise ufficialmente perché la famiglia si era trasferita a Udine ma più probabilmente per i dissidi all’interno del suo partito nel quale stava prevalendo la corrente massimalista. Conquistò così il Comune nel 1920 il Partito Popolare con il sindaco avv. G. Candussio. Anche nelle elezioni per il parlamento il “Partito popolare nel giro di due anni quadruplica il proprio elettorato e nel ’24 mostra di avere una maggiore resistenza del PSI” (S.Zilli).
Era anche il risultato di un movimento politico che si era formato all’ombra della Cassa Rurale fondata nel 1906 per iniziativa soprattutto del cappellano don Roiatti che aveva assunto anche la carica di segretario. Già nel ’23 tuttavia la pressione dei fascisti costrinse però Candussio alle dimissioni e venne nominato un Commissario Prefettizio.
Durante il Governo Facta, il 28 ottobre del 1922 i fascisti organizzarono la “marcia su Roma” e si impadronirono del potere senza incontrare resistenza, dato che da lungo tempo si andava verificando la pratica collusione delle forze statali con il fascismo, e dato che il re Vittorio Emanuele III, che pure all’inizio del suo regno sembrava aver imboccato la via della correttezza costituzionale, preferì consegnarsi, e consegnare il paese, al fascismo” (Camera-Fabietti).
Dopo la marcia su Roma, Mussolini volle presentarsi agli italiani come animato dalle migliori intenzioni per il ritorno alla legalità e formò un governo di coalizione nel quale entrarono anche esponenti delle correnti liberali e del Partito Popolare. In realtà, mentre le forze conservatrici amarono illudersi sull’auspicata normalizzazione, il fascismo continuò la sua opera di sovvertimento delle libertà statutarie, sistematicamente sostituite dai nuovi strumenti dello Stato Fascista come il Gran Consiglio e la Milizia.
Il processo di graduale edificazione dello stato totalitario subì una decisiva svolta quando il fascismo, condannato e attaccato dalle opposizioni per l’efferato assassinio dell’on Matteotti, reagì gettando la maschera e nel discorso alla Camera del 3 gennaio ‘25 rivendicando a titolo di gloria tutti i delitti degli squadristi. “Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere”
Il fascismo percorse un’altra tappa importante sulla strada della propria trasformazione traendo pretesto dall’attentato perpetrato contro Mussolini nel 1925 dal socialista Zaniboni che era stato deputato per la circoscrizione di Udine-Belluno dal ‘21 al ‘24 si giunse allora sino alla istituzione di un Tribunale speciale, dalle finalità dichiaratamente faziose e persecutorie.
Dietro la facciata del regime totalitario, che pretendeva di identificarsi con la nazione e con la società italiana, continuò peraltro ad esistere un’Italia apolitica, indifferente e impermeabile ai miti ed alla retorica del fascismo, mentre una minoranza di coraggiosi (dai comunisti e socialisti ad alcuni gruppi di repubblicani, di popolari, di liberali democratici) non desistette dalla lotta contro il regime, anche a costo dei più gravi sacrifici e a rischio della vita.
Benché l’ideologia totalitaria fosse incompatibile con le concezioni cattoliche, il regime godette a lungo del favore della Chiesa (che però non mancò mai di esprimere le proprie riserve) e riuscì a concludere con la Santa Sede i Patti Lateranensi, (1929) che posero termine al lungo dissidio fra Chiesa e Stato apertosi nel 1870 con la breccia di Porta Pia.
Nel frattempo anche a Tolmezzo la vita amministrativa passò nelle mani del Partito Fascista purtroppo “costituito in troppa parte da quegli elementi conservatori e profittatori che vedevano nel movimento nuovo non le idealità, ma la difesa materiale dei loro interessi” (M.Gortani). Nel ’23 i fascisti provocarono una crisi in Comune che portò ad un primo commissariamento. Si alternarono accuse di ogni genere, attentati e presunti attentati che infuocarono la politica locale. Nel ’24 si formò un consiglio costituito dai maggiorenti locali e da qualche fascista. Nel 27 anche a Tolmezzo viene insediato il podestà di nomina governativa, al posto del Sindaco e del Consiglio, Lino De Marchi in “un compromesso tra vecchie clientele e nuovo fascismo” (Laura e Marco Puppini) .
Nella Cooperativa Carnica Cella, pur essendo socialista, riuscì a restare Direttore anche nel primo periodo fascista. Anche perché le cooperative, in particolare quelle di lavoro furono costrette ad un accordo di compromesso per poter avere i lavori pubblici e aderirono così al neo costituito Ente Nazionale della Cooperazione. Quando nel ’28 il prefetto Cavalieri tentò di far sostituire Cella, a suo favore scese in campo con un documento anche Gortani come Presidente della Pro Carnia, denunciando l’ingiusto attacco dei fascisti alla Cooperativa.
Ma a Tolmezzo, come nel resto d’Italia, il fascismo controllava ormai la situazione senza la necessità di compromessi e nel ’32 venne nominato direttore Arturo Lucani di Comacchio, già imposto l’anno prima come vicedirettore.
In una situazione completamente diversa si viene a trovare invece la Cassa Rurale che finisce in contrasto con la Parrocchia, portando alle dimissioni da segretario di don Roiatti. Nel ’20 la Cassa aveva acquistato il Ricreatorio festivo di proprietà della Parrocchia. Il parroco pensava di poterlo gestire comunque come bene parrocchiale, mentre i consiglieri della Cassa pensavano ad un uso più libero a favore della cittadinanza. Il contrasto celava, evidentemente, l’opposizione da parte del clero locale alla linea larga ed aperta che i dirigenti della rurale cercavano di tenere.
Negli anni trenta si modifica radicalmente la politica della cassa rurale che riduce il suo impatto sul piano dell’economia locale, ma rafforza il collegamento con la Parrocchia, finendo per identificarsi con il Movimento dell’Azione Cattolica.
Il ricreatorio dopo alterne vicende finirà donato ai Salesiani e costituirà il primo riferimento per il radicarsi di una istituzione che era stata richiesta dai popolari per la gestione del Convitto Comunale e la istituzione del Ginnasio, ma poi volutaq e confermata anche dal fascismo. Come scrive Meneghetti “la cosa è di grande rilevanza storica e chi scriverà la storia della Carnia contemporanea non potrà prescindere dall’influenza che ha esercitato su più generazioni di classe dirigente l’Opera Salesiana”.
A contrappuntare con qualche disgrazia la storia di Tolmezzo e della Carnia, il 27 marzo del l ’28 interviene di nuovo la natura, provocando un nuovo disastroso terremoto. Titola il Giornale del Friuli “L’Alto Friuli e la Carnia funestati da forti scosse di terremoto” e poi qualche giorno dopo scrive che “il Friuli compatto risponde all’appello delle Gerarchie per sovvenire i fratelli colpiti dal disastro tellurico”. Il sisma ha interessato tutta la conca tolmezzina ed in particolare Verzegnis provocando una trentina di morti. Le molte case danneggiate furono riparate con l’introduzione delle prime tecniche di costruzione antisismica, e fu introdotta la normativa antisismica per le nuove costruzioni. Questo fece sì che il successivo terremoto del ’76 non causasse i disastri provocati nel gemonese.
Di particolare rilievo nel periodo, sulla spinta di una ricostruzione che si voleva mirata allo sviluppo, anche per la storia successiva di Tolmezzo l’entrata in funzione nell’ottobre del 1933 della Cartiera. L’iniziativa fu di A.Petsaly (di famiglia ebrea greco d’origine ma residente in Belgio e amministratore delegato delle Cartiere De Naeyer) con l’appoggio locale di Menotti Aita e la collaborazione di Paolo Marpillero. Il capitale iniziale di un milione di lire fu in breve portato a 15 milioni e all’avvio furono occupati 146 dipendenti tutti della zona.. Avrebbe dovuto avere il vantaggio di sfruttare il legname locale e in effetti ci fu un accordo con tutti i Comuni per un diritto di prelazione sul legname della Carnia, che però non risultò particolarmente adatto. E infatti già nel ’38 si dovette sospendere l’attività per la difficoltà a reperire il materiale da lavorare. Per le leggi razziali, Petsaly nello stesso anno fu costretto a fuggire, e fortunatamente gli subentrò la Pirelli con un programma di rilancio della produzione che ha portato la Cartiera ad essere nel dopoguerra il punto di riferimento occupazionale più importante per la Carnia.
In ambito europeo negli stessi anni si assiste all’affermarsi del nazismo in Germania ed il consolidarsi del regime comunista in Russia imposto da Lenin nel 17, l’imperialismo nazista e fascista metteva in crisi la Società delle nazioni, organizzazione intergovernativa nata dopo la prima guerra mondiale con lo scopo di prevenire nuove guerre.
Nel 1936 in Spagna aveva vinto le elezioni il Fronte Popolare e si apprestava a portare avanti un programma di riforme sociali, ma la vecchia Spagna reazionaria reagì sotto la guida del generale Franco e scoppiò la guerra civile. Con la neutralità della Francia e dell’Inghilterra, Franco ebbe l’appoggio della Germania e dell’Italia, mentre la Russia appoggiava i popolari assieme ad una Brigata internazionale nella quale si distinse l’italiana Legione Garibaldina.
Nel ’35 l’Italia aggredì l’Etiopia. Già dal 29 Mussolini nutriva l’aspirazione alla ricostituzione di un Impero che si potesse richiamare a quello romano. L’Etiopia era l’unico Stato africano ancora indipendente e confinava con le colonie italiane dell’Eritrea e della Somalia. Faceva parte della società delle Nazioni, ma ciò non impedì l’aggressione italiana che portò la Società delle Nazioni a imporre le sanzioni contro l’Italia. Il duce rispose indicendo per il 18 dicembre del ’35 la giornata della Fede, invitando gli italiani a contribuire con il loro oro al finanziamento della guerra. La blanda reazione inglese rafforzò il fascismo all’interno e favorì la costituzione dell’asse Roma-Berlino che diventerà il patto d’acciaio del ‘39.
Gli stessi giorni il Maresciallo Badoglio a cui erano state affidate le operazioni, richiese l’invio di una divisione alpina da impiegare sulle montagne d’Abissinia. Fu costituita ex novo la V Divisione Pusteria raccogliendo vari reparti e molti alpini anche carnici. Dopo numerosi sanguinosi scontri, anche con l’utilizzo di armi proibite, il 9 maggio dal balcone di Palazzo Venezia, Mussolini poteva dichiarare la fine della guerra e la nascita dell’Impero.
Intanto in Europa gli avvenimenti precipitano. Nel 36 Germania e Giappone si alleano in funzione anticomunista. Hitler, annette l’Austria nel 38 e per non essere da meno Mussolini occupa e annette l’Albania. L’aggressione di Hitler alla Polonia (1° settembre 39) e la reazione di Francia ed Inghilterra che dichiarano guerra alla Germania segna l’inizio della seconda guerra mondiale.


La seconda guerra mondiale.

Per l’Italia e quindi anche per Tolmezzo, il periodo storico della seconda guerra mondiale può essere diviso in due parti completamente distinte e diverse. La prima quella dell’Italia fascista in guerra a fianco della Germani, la seconda quella dell’Italia invasa-liberata dagli anglo americano, difesa-occupata dai nazisti, con gli italiani incerti e divisi alcuni schierati da una parte gli altri dall’altra.
Convinto della fondamentale incapacità militare delle deomocrazie occidentali e forte di un patto di non aggressione stipulato con la Russia, Hitler , occupata la Polonia rivolge le sue armate contro gli Anglo-francesi e costringe la Francia alla resa, ma non riesce a superare la Manica. Nel 1941, violando il patto di non aggressione, attacca improvvisamente la Russia e tenta di infliggerle il colpo decisivo, ma, dopo i primi strepitosi successi, l’avanzata viene arrestata dai Sovietici sulle soglie di Mosca . Il Giappone aggredisce la flotta americana a Pearl Harbor e determina l’entrata in guerra degli Stati Uniti.
L’Italia il 27 settembre 1940 aveva firmato il patto tripartito con la Germania e il Giappone, in base al quale avrebbe avuto il controllo del Mediteraneo, nel Nuovo Ordine che si sarebbe dovuto imporre al Mondo, sui principi esposti da Hitler nell’opera Mein Kampf. Per fare la sua parte il 28 ottobre 1940 Mussolini dall’Albania mosse guerra alla Grecia, ma l’iniziativa finì con un grande sacrificio di vite umane e addirittura con l’avanzata greca in territorio albanese. Ci salvò la Germania che dopo aver occupato la Jugoslavia, occupò anche la Grecia
Con l’Armata Italiana in Russia (Armir) partecipammo alla seconda offensiva contro la Russia, che dopo i primi successi nell’estate del ’42, nell’autunno si arrestò nella battaglia di Stalingrado, e divenne poi durante l’inverno la disastrosa ritirata, nella quale il nostro corpo di spedizione, lasciato senza notizie e senza assistenza dall’alleato tedesco, veniva praticamente quasi distrutto.
Come in ogni parte d’Italia a Tolmezzo e in Carnia si vivono questi eventi con la partecipazione che deriva dall’avere figli o parenti impegnati sui vari fronti di guerra. Nel 43 vennero chiamati alle armi i ragazzi del ‘33 mentre erano ancora in servizio quelli del ‘13, si può ben immaginare come ogni famiglia con tanti giovani alle armi, fosse direttamente o indirettamente coinvolta.
La storia della Carnia in questi anni si fonde con quella degli alpini e poi in particolare con quella della Brigata Alpina Iulia. Gli Alpini furono infatti impegnati già nella conquista dell’Etiopia, come s’è visto, nella Divisione Pusteria. La Julia costituita nel ’26 come Brigata, diventa divisione nel ’35, e viene impegnata nella campagna di Grecia e poi in quella di Russia. La canzone sul ponte di Perati, ricorda i tanti morti nella prima campagna. L’epica battaglia per uscire dalla sacca di Nikolaievka è stato il momento culminante d’una tragedia che ha visto il sacrifico di troppi carnici nella campagna di Russia.
Dopo la disfatta in Russia, inizò la controffensiva degli Anglo russo americani, le truppe dell’Asse furono sconfitte anche in Libia. Nel 43 gli Anglo americani sbarcano in Italia nel ’44 aprono un secondo fronte in Normandia. Il 1942 costituisce l’anno di svolta della guerra, che volge ora in favore degli Anglo-russo-americani sia per le gravi sconfitte subite dai Tedeschi di fronte a Stalingrado e dalle truppe dell’Asse in Libia, sia per lo sbarco alleato nel Marocco francese e nell’Algeria, sia per il rovesciamento della situazione in favore degli Americani sul teatro del Pacifico. (Camera-Fabietti).
Lo sbarco degli anglo-americani in Sicilia e la rapida avanzata degli alleati diedero forza all’aspirazione degli italiani di liberarsi ad un tempo della guerra e del fascismo. Nella riunione del Gran Consiglio del fascismo del 25 luglio 1943 Mussolini fu messo in minoranza, congedato dal re ed arrestato per preservarne l’incolumità personale. La responsabilità del governo passò al generale Pietro Badoglio che l’8 settembre firmava l’armistizio. L’Italia era nel frattempo di fatto già stata occupata dai tedeschi. Nella comunicazione dell’’armistizio via radio si chiedeva all’esercito di cessare ogni atto d’ostilità contro le forze anglo-amnericane e di reagire ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza. Di fronte a indicazioni così poco chiare di norma i reparti si sciolsero alcuni resistettero come la guarnigione di Cefalonia,
Il 10 settembre i tedeschi liberavano Mussolini prigioniero al Gran Sasso e lo ponevano a capo della Repubblica Sociale Italiana di Salò, mentre in ogni parte d’Italia si organizzava la Resistenza per supportare l’avanzata degli alleati che si rivelò molto più difficile del previsto.
Iniziava per gli italiani la seconda parte della guerra, quella che va sotto il nome di guerra di liberazione per il formarsi del movimento delle Resistenza. Si costituiscono nella Italia occupata, con varie modalità le bande partigiane con l’obiettivo di favorire l’avanzata degli anglo-americani e la riconquista della democrazia nel paese.
Anche per questa vicenda storica, a mio avviso, l’epopea che se ne voluta fare nel dopoguerra e che si continua a fare, ha finito per impedire di cogliere la complessità e quindi la difficoltà della situazione.
La guerra di liberazione in Carnia si è caratterizzata per la costituzione della Zona Libera della Carnia. Se ne seguiamo lo sviluppo nella documentata ricostruzione che ne fanno Angeli e Candotti in “Carnia Libera – La repubblica partigiana del Friuli”, non si può non restare colpiti dalla sproporzione tra i fatti e il loro racconto, come avviene in ogni racconto epico. Sproporzione tra quel che si sarebbe voluto fare e quel che si è fatto, tra gli ideali ed i propositi e la realtà. Si finisce così per commentare la realtà dei fatti con le intenzioni, rendendo poco attendibile e quindi poco credibile il racconto.
Da un lato abbiamo dei modesti risultati sul piano militare ed una grande idea sul piano politico che riesce però solo ad essere abbozzata come iniziativa, dall’altro abbiamo le conseguenze d’una situazione di grave difficoltà, miseria e sacrificio per la popolazione. Abbiamo quello che giustamente nella sua ricostruzione dei fatti Michele Gortani chiama il “martirio della Carnia”, senza alcun riscontro significativo sul piano pratico della guerra di liberazione.
Se “la Resistenza italiana nella strategia degli alleati doveva avere un valore semplicemente diversivo impegnando in Italia il maggior numero di divisioni” (Camera-Fabietti) in Carnia ha ottenuto l’obiettivo impegnando fino a 20.000 soldati tedeschi nella sua repressione. Se invece avesse dovuto collaborare alla strategia militare complessiva è evidente che l’iniziativa in Carnia avrebbe dovuto concentrarsi nell’interrompere i collegamenti con la Germania attraverso il passo di Monte Croce, come si riconosce anche nella lettera del Sottocomitato Carnico del CLN del 16 luglio. L’obiettivo non fu però mai raggiunto e le azioni militari si ridussero a imboscate per procurarsi delle armi, per poi comunque dover prendere atto al momento dello scontro finale, di essere senza armamenti adeguati per opporsi veramente all’avanzata tedesca. Ad ogni imboscata pero, faceva purtroppo seguito una reazione a danno dei civili.
Al di là della retorica, per capire che cosa sia stata veramente la lotta partigiana in Carnia, è necessario anche ricostruire come si siano formati i reparti, capire chi furono gli aderenti al movimento.
Come si è detto, dopo l’8 settembre i reparti in armi venivano sciolti senza ordini o indicazioni. Per i giovani soldati si presentava improvvisamente la necessità di scegliere fra tornare sotto le armi nell’esercito italiano che si andava ricostituendo o porsi nella condizione di disertore. Analoga scelta si imponeva per i giovani coscritti non ancora arruolati, tenendo presente che la condizione di disertore, comportava la condanna alla fucilazione. Erano giovani cresciuti alla scuola del fascio, non avevano mai sentito parlare di libertà e democrazia, non si può quindi immaginare che, in genere, abbiano scelto in nome di questi ideali. Hanno scelto di norma su un calcolo di opportunità, valutando quale fosse stata la soluzione più conveniente. E su questa diversa valutazione, discussa spesso tra amici, si sono poi divisi per diverse valutazioni, per ritrovarsi assurdamente gli uni contro gli altri armati.
Si era finiti in una situazione di completa anarchia, della quale, come è sempre avvenuto, approfittarono i violenti, e le bande partigiane ebbero al loro interno anche persone che assunsero atteggiamenti banditeschi di violenza nei confronti della popolazione inerme. Alcuni di questi banditi furono giustiziati dagli stessi partigiani, ma intanto la popolazione aveva dovuto subire angherie di ogni genere. La maggioranza delle persone “normali” preoccupate della famiglia e dei figli avrebbero voluto starne fuori, attendere che finisse. Tanto non sarebbe stato il contributo di qualche banda partigiana a determinare l’esito della guerra.
Ci furono infine alcuni, pochi in proporzione, per i quali la scelta derivava da motivazioni ideali. Quelli che erano all’altezza di raccogliere l’appello del docente universitario di latino Concetto Marchesi: “una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza, vi ha gettato tra cumuli di rovine, voi dovete tra quelle rovine portare la luce di una fede”. Furono questi ad operare all’interno del movimento per favorire la formazione d’una nuova cultura ispirata ai valori della democrazia. Furono questi che arrivarono ad immaginare e poi a costituire la Carnia Libera.
In Carnia tuttavia, a differenza anche del Friuli, le bande non si formarono immediatamente dopo l’8 settembre. Del resto anche in Friuli l’inverno aveva ridotto l’attività del movimento partigiano. Quando nella primavera del ’44 riprese con maggiore dinamismo, si venne organizzando meglio e si diffuse anche in Carnia. A Verzegnis è lo stesso parroco don Boria a consigliare ai giovani la via della montagna e nella frazione di Pozzis si è formato il Btg. Tagliamento della Divisione Osoppo che si era costituita nel Castello di Pielungo. Nella alta val Tagliamento si costituisce invece, attorno alla figura del medico Arturo Magrini il primo nucleo di quella che sarà la Brigata “Garibaldi-Carnia”.
Due quindi le formazioni partigiane la Garibaldi del fazzoletto rosso come divisa, ed la Osoppo del fazzoletto verde, alla prima aderiscono socialisti e comunisti, alla seconda democristiani aderenti al partito d’azione e liberali. Ma è la prima a dare l’impronta, a segnare il carattere della Resistenza in Carnia.. Il fanatismo ideologico di alcuni aderenti costituisce un ulteriore elemento di divisione all’interno del movimento. Diversa è la prospettiva che si danno gli uni e gli altri per il dopo guerra, gli uni pensano alla rivoluzione, per instaurare il regime comunista, gli altri ad uno Stato liberale e democratico. Gli uni preferirebbero una entrata dell’Italia nell’orbita dell’Unione Sovietica, gli altri considerano il comunismo una sciagura. Contrasti che hanno portato a stragi interne, come quella di Porzus.
Pur senza giungere a questi estremi, anche in Carnia lo scontro tra le due anime del movimento partigiano è un ulteriore elemento di disagio e difficoltà anche per la popolazione.. Scontro violento anche qui, se gli osovani denunciano ad esempio che a Comeglians si vive sotto una cappa di terrore in preda alle violenze. Se nelle prime adunanze della Carnia Libera il rappresentante democristiano denuncia che le requisizioni sono a volte il risultato di avidità personale incontrollata e che vanno quindi regolamentate, e gli risponde il rappresentante comunista sostenendo che “le necessità sono continue ed effettive per i reparti militari di approvvigionarsi di quanto loro occorre per gli scopi superiori della lotta di liberazione, scopi che sono preminenti rispetto ad ogni considerazione particolaristica” (Angeli-Candotti)
Nell’aprile nell’Italia liberata si forma il governo Badoglio con la partecipazione dei partiti antifascisti. I tedeschi resistono ancora sulla line di Cassino, ma già dal gennaio gli alleati hanno attuato un secondo sbarco alle spalle ad Anzio e il 5 giugno sarà liberata anche Roma. Il 25 aprile l’osovano Renato Del Din, compie la prima azione della lotta partigiana in Carnia e muore nell’assalto alla caserma della milizia fascista. Ma il 5 di aprile i tedeschi avevano deciso la costituzione della “guardia civica” per proteggere strade e mezzi di comunicazione, reclutando d’imperio dei civili, che si trovano ad operare al servizio dei tedeschi. Il 25 maggio scadeva l’ultimatum ai giovani per presentarsi alla leva con la Repubblica di Salò. Era stato imposto il coprifuoco dalle ore 20 in tutta la Carnia. Iniziano gli scontri tra partigiani e tedeschi e fascisti che danno luogo a gravi rappresaglie a danno della popolazione civile come l’incendio di Esemon di sotto dell’8 giugno. Anche solo da queste note si può capire la difficoltà del momento che sta attraversando la popolazione carnica..
Nei mesi di maggio e giugno anche in Carnia “avvenne quasi l’esplosione del movimento partigiano” (Mario Candotti). All’inizio dell’estate “l’attività delle formazioni armate ha ormai assunto una caratteristica che trascende il concetto delle precedenti azioni di guerriglia, ma si manifesta con vere e proprie azioni aperte e coordinate per il possesso del territorio, che verso la fine di luglio include una quarantina di Comuni”.
Così si legge nelle relazioni del tempo. Ma l’esplosione del momento è evidentemente collegata al fatto che il 25 maggio scadeva l’ultimatum per presentarsi alle armi. Per la relativa facilità con la quale viene liberato il territorio più che ad un successo dei partigiani, si è portati a pensare ad un cambio di strategia da parte dei tedeschi che, lasciando perdere i confronti a livello locale, si ritirano a Tolmezzo e preparano una controffensiva in grande stile.
Intanto si fa sempre più pesante la situazione per la popolazione civile. Tolmezzo era saldamente occupata dai Tedeschi, il 20 luglio il paese viene posto in stato d’assedio, con il divieto di lasciar passare sia viveri che medicinali. Ma ad impedire i rifornimenti non sono solo i tedeschi, anche i partigiani impediscono lo scambio di viveri con la pianura perché “il popolo deve essere portato all’esacerbazione, perché tutti fino all’ultima donna si ribellino al nazifascismo, e se non hanno armi usino contro di loro le roncole e le falci”. Vengono punite le donne che infrangendo il divieto, con enormi sacrifici e correndo gravi rischi rientrano dalla pianura con nelle pesanti gerle i viveri per i loro figli. Il diritto di prelazione su ciò che c’è, spetta evidentemente ai partigiani in armi, che requisiscono “per la causa”, e alle volte possono anche sprecare dopo aver tolto l’indispensabile ai cittadini inermi.
Non è forse un caso che la modifica della strategia abbia coinciso con la morte di Aulo Magrini sul ponte di Noiaris. Ad ogni modo andrebbe indagato meglio che cosa abbia significato per il movimento, la morte d’un personaggio del livello di “Arturo”. Non è un caso che sia morto in quello che è stato forse l’unico attacco militarmente organizzato, su quello che avrebbe dovuto essere l’obiettivo principale: l’interruzione della strada di collegamento al passo di Monte Croce.
Il giorno prima erano stati fatti cadere dei massi che avrebbero costretto i nazisti a salire per rimuoverli. Ci si può quindi organizzare conoscendo preventivamente le caratteristiche del contingente che si vuole affrontare. Magrini attende il reparto al rientro. Assieme gli uomini della Divisione Osoppo alla destra del But, i suoi sul costone sopra la curva di Noiaris. Purtroppo l’attacco non preordinato da parte di alcuni partigiani a Paluzza, mise in stato di allerta il reparto. Ma è stato uno sparo sconsiderato, prima dell’ordine di far fuoco a far saltare il piano. Il reparto tedesco si arrestò prima di essere completamente sfilato per essere sotto il tiro dei partigiani. C’era quindi il rischio di restare accerchiati e fu dato l’ordine della ritirata. Nello scontro cadde Magrini con altri due partigiani.
I giorni successivi ci furono poi gli eccidi di Malga Pramosio del 21 luglio e di Paluzza e del Ponte di Sutrio del giorno dopo da parte di una pattuglia tedesca camuffata da partigiani garibaldini. Non è dimostrabile, ma è possibile anche leggere questi ultimi terribili episodi come rappresaglia per lo scontro al ponte di Noiaris, allo stesso tempo come intimidazione a lasciare libera la valle del But e il passo di Monte Croce.
Sarà un caso, ma in seguito il movimento partigiano si concentrò nella Val Tagliamento, e non ci fu poi nessuna interruzione della strada di collegamento con la Germania, attraverso l’Austria. Tant’è che quando a ottobre i tedeschi decideranno di ripulire dai partigiani la valle del But lo faranno sia salendo da Tolmezzo che scendendo da Monte Croce.
Ma al di là di come siano andate le cose al ponte di Noiaris, forse ancora più importante sarebbe indagare quanto Magrini avrebbe potuto influire sui comportamenti degli uomini della resistenza in Carnia e sugli sviluppi del movimento, per l’indubbio carisma che aveva come “medico dei poveri” e per gli ideale da vero patriota che lo muovevano. Il commissario “Arturo” avrebbe accettato comportamenti come quelli del comandante il Btg.. Friuli Mirco e di altri come lui che avevano fatto diventare legge l’arma che impugnavano?
La stessa voce che si è diffusa tra il popolo sul fatto che nello scontro sarebbe caduto in effetti per fuoco amico, potrebbe finire per esaltarne la memoria. Anche le voci hanno sempre un fondo di verità, e certamente la presenza di Magrini dava fastidio a chi si era imboscato nella resistenza per comportarsi da fuorilegge. Anche se non era vero, poteva risultare credibile che fosse caduto, perché dava fastidio a quelli che non condividevano i suoi ideali, e non sopportavano le regole di comportamento che voleva imporre.
Intanto muove i primi passi l’idea della “Carnia Libera”. Nei Comuni “liberati”! si costituiscono i CLN comunali e l’11 agosto si costituisce il CLN carnico per rispondere all’esigenza d’un coordinamento. Come in Val d’Ossola anche in Carnia si costituìsce la Zona Libera con capitale ad Ampezzo, e il 26 settembre nella sala delle udienze della pretura si tenne la prima riunione del Governo della Carnia Libera, e nei giorni successivi si prese a discutere di riforma della giustizia, di rinnovamento politico amministrativo, di organizzazione del territorio, di riforma e riorganizzazione della scuola
I resoconti di quelle riunioni costituiscono un importante documento sulla carica ideale e l’ampiezza di vedute che muoveva i costituenti della Carnia Libera. Allo stesso tempo, facendo mente alla situazione del momento, si ricostruisce un quadro che ha dell’incredibile.
Ad Ampezzo ci si muove come se la zona fosse libera definitivamente, e si potesse veramente pensare al futuro. Ma già dall’agosto in Friuli sono arrivati i cosacchi e continuano ad arrivare ad Amaro, preparandosi ad occupare la Carnia, la terra che è stato loro promessa come Kosakenland.. Sono già trapelate le voci d’una massiccia spedizione punitiva, l’operazione Waldlaufer che i Tedeschi intendono sviluppare per rioccupare la Carnia. L’operazione in effetti era gia iniziata alla fine di settembre, e s’era subito visto che i nazisti facevano sul serio. I paesi di Faedis Nimis Attimis vengono messi a ferro e fuoco, incendiati e in gran parte distrutti, e ciò che restò venne messo nella mani dei cosacchi. Era così finita nel sangue di cittadini inermi e inconsapevoli l’esperienza della Zona Libera del Friuli Orientale.
Era facile immaginare che lo stesso schema sarebbe stato adottato contro la Carnia. Ma, paradossalmente, “il 1° ottobre ad Ampezzo sventola il tricolore e il governo Libero è di nuovo all’opera in seduta ordinaria per proseguire un faticoso lavoro di riorganizzazione e di riassetto dell’intera zona. Assiste un pubblico numeroso e attento” (Angeli-Candotti). C’è anche il tempo per qualche scontro verbale tra comunisti e democristiani.
L’Arcivescovo di Udine mons. Nogara scrive al Supremo Commissario del Litorale Adriatico, scongiurando di far cessare “questa strage di innocenti, questa sequela di dolori. “Prendete me, mettetemi in carcere, mandatemi in esilio sono nelle vostre mani, ma lasciate in pace i miei figli”. L’Arcivescovo ha chiara la situazione, capisce ciò che si sta prospettando per la Carnia e scrive al prof. Gortani ed ai Parroci perché si attivino per convincere i partigiani a ritirarsi per evitare la tragedia della popolazione..
Il sei ottobre il CLNZL è di nuovo riunito. La seduta viene sospesa per l’arrivo del maggiore inglese di collegamento John Nicholson, seguito da Andrea e Don Lino, che legge una copia della lettera inviata dall’arcivescovo anche al dott. Bearzi di Socchieve.. “L’assemblea rimane attonita. Un silenzio grave significativo, fa seguito all’intervento di Andrea che rileva il condannabile comportamento di chi ha portato a conoscenza pressoché pubblica una notizia di così capitale e allarmante importanza militare”. Si propone di deferire Bearzi al Tribunale militare (sic!). “L’adunanza poi prosegue al pomeriggio e il Comitato (come se nulla stesse accadendo!) ascolta un’ampia relazione del maresciallo forestale sulla situazione dei boschi e sui criteri che meglio si addicono alla conservazione e utilizzazione (sic!). Il fatto ha dell’incredibile!
Ma non basta! Lo stesso giorno, visto che a Tolmezzo c’è un notevole concentramento di forze che saranno impegnate nell’operazione, il maggiore Nicholson, manda un messaggio chiedendo un bombardamento su Tolmezzo che non ha alcuna difesa aerea. Propone di distruggere immediatamente la città, per prevenire attacco contro la zona libera della Carnia (!).
Eppure il due ottobre erano già stati fatti sgomberare i paesi di Bordano e Trasaghis, per consegnarli ai Cosacchi. I tedeschi avevano occupato il Brancot e il S.Simeone, a loro s’era unita la cavalleria cosacca. Ci sono in campo, senza contare i Cosacchi al seguito, ventimila tedeschi armati di tutto punto, contro duemila partigiani armati per modo di dire. Fra questi duemila ci sono poi molti che si sono vestiti da partigiano per salvare la pelle e che non intendono certamente metterla a rischio non si sa bene per quale motivo ideale.
Il buonsenso avrebbe consigliato una ritirata strategica sui monti per evitare le rappresaglia contro la popolazione e invece si decide per la tattica della “resistenza elastica”. Ritirarsi punzecchiando il nemico che avanza. E’ evidentemente la tattica più idonea a suscitare le rappresaglie L’otto ottobre l’operazione militare parte da Tolmezzo verso la valle del But. Il CLNCL ha l’opportunità d’una ultima riunione il 10 e dirama un appello alla popolazione “a fronteggiare con serenità e fermezza i prossimi eventi”.
Le operazioni militari furono prevalentemente condotte da tedeschi e repubblichini, mentre ai cosacchi era riservata l’occupazione permanente dei villaggi via via riconquistati. I reparti partigiani “dopo tre giorni di combattimenti e di spostamenti sotto una pioggia battente sono stremati ed hanno anche esaurito le munizioni” (M.Candotti). In questa strenua difesa della Carnia “ci furono 12 morti 8 feriti e numerosi sabandati” (Angeli-Candotti).
Ma , come era prevedibile, vista la sproporzione di forze in campo non ci poteva essere storia e già il 13 i primi reparti cosacchi, affamati e laceri giungono ad Ampezzo. Il 15 ottobre il nemico controllava ormai tutta la Carnia. La “Zona Libera” della Carnia era finita. La repubblica partigiana del Friuli, Carnia Libera era durata 13 giorni.
Fortunatamente malgrado il discutibile comportamento dei partigiani le rappresaglie furono limitate a qualche caso come quello che portò alla morte del Parroco di Imponzo don Treppo. L’appello dell’Arcivescovo forse è valso ad evitare alla Carnia la repressione brutale che c’era stata ad Attimis e Faedis. L’esperienza della Carnia Libera è finita. Il movimento partigiano si è sciolto come neve al sole, salvo qualche chiazza che resiste in qualche malga e che viene presa di mira dai Cosacchi, che occupano un po’ alla volta tutta la Carnia liberata, loro assegnata in premio come Kosakenland.
Ci furono ancora delle azioni sconsiderate come quella che va sotto il nome di battaglia di Raveo. Il 13 novembre lo stesso Maresciallo Alexander con un suo proclama consigliava i partigiani al di là del Po, a sospendere momentaneamente le le operazioni. Mirko invece con il suo battaglione Friuli della Garibaldi il 17 novembre tentò di riconquistare il paese, in mano ai cosacchi. Anche qui è finita per fortuna solo con qualche incendio. Mirco invece è stato fucilato assieme alla sua compagna Katia, perché si sarebbe rifiutato di rientrare in Jugoslavia, come gli era stato ordinato dai comandanti il IX Corpus. Muore con lui il mistero di questo giovane comandante partigiano, venuto dalla Jugoslavia, al quale viene addebitato un numero imprecisato di omicidi. La risposta alle domande su chi fosse veramente e perché sia stato ucciso, forse ci aiuterebbero a capire altri risvolti del movimento della Resistenza in Carnia.
Per i carnici ha inizio un nuovo periodo di sacrifici costretti come sono ad ospitare quarantaquattro presidi cosacchi, del Don, del Kuban, caucasici e georgiani, in tutto circa 40.000 persone con 6.000 cavalli e 50 cammelli. Ma alla fine ed in vari modi fra Carnici e Cosacchi si riuscì a trovare un compromesso per poter sopravvivere entrambi. Fra disgraziati ed affamati nacque un rapporto di reciproca condivisione, che fu migliore di quello che si era instaurato a volte fra compaesani divisi fra liberandi e liberatori. mentre i partigiani, seguendo l’invito di Alexander, presero a rientrare nelle loro case alla spicciolata, con i cosacchi che chiudevano un occhio. Alcuni comunque rimasero in armi ed anzi ai primi mesi del ’45 si aprì una scuola quadri in Malga Avedrugno sopra Raveo. Tra gli irriducibili ci furono anche delle rese dei conti, sulle cui motivazioni c’è ancora molto da indagare, come quella di Mirco di cui s’è detto o quella di Enore di Sostasio “giustiziato” il 28 novembre.
Pur nell’estrema difficoltà non essendoci da mangiare né per i cristiani né per i cavalli, si riuscì in qualche modo a convivere, anche perché le notizie che venivano dai vari fronti, facevano capire ai Cosacchi d’essere stati illusi ancora una volta, che quella di Carnia non avrebbe potuto essere la loro terra, che per loro s’apriva un futuro senza speranza, mentre nei carnici cresceva la speranza che si fosse vicini alla fine.
Diverso evidentemente l’atteggiamento dei Cosacchi nei confronti delle ultime sacche di resistenza partigiana in qualche malga o rifugio e in questo contesto rientra l’incendio del Rifugio De Gasperi nella Pasqua del ’45, ove si erano rifugiati alcuni partigiani.
Alla fine di aprile iniziarono i preparativi per il rientro dei cosacchi in Austria. Una fiumana di gente sconfitta avvilita e senza destino contro cui alcune formazione partigiane riallestite per l’occorrenza, pretesero di ottenere la consegna delle armi per poter poi dimostrare agli anglo-americani. d’aver concretamente contribuito alla liberazione. I cosacchi risposero che le avrebbero consegnate solo agli inglesi, e da Prato Carnico fasciarono le ruote dei carri e gli zoccoli dei cavalli, per poter partire nel silenzio della notte.
L’esasperazione dei Cosacchi e l’incoscienza dei partigiani portò alle stragi di Avasinis. Anche se tra i due fatti è probabile non ci sia stata consequenzialità, ad Avasinis si sono arresi spontaneamente 80 Cosacchi e sono stati trucidati Una banda di belve umane con la divisa delle SS, ha massacrato 36 abitanti del paese tra cui donne e bambini.
La stupidità di alcuni partigiani ha portato all’eccidio di Ovaro, con una “impresa” che sembra quasi voler porre il timbro finale sull’esperienza della lotta partigiana in Carnia, esaltante per la carica ideale che ha mosso i pochi, da dimenticare per la prepotenza e lo spregio del valore della vita da parte di troppi..
Qui il due maggio con una carica di dinamite si fece rollare la caserma della frazione di Chialina anella quale erano asserragliati, con le famiglie, i Cosacchi che si rifiutavano di consegnare le armi. Ne furono uccisi diciannove, feriti 30, e fatti prigionieri 66, mentre stava salendo la valle il grosso dell’esercito cosacco. Non paghi si passò all’assalto della scuola di Ovaro ove c’era un secondo distaccamento e si uccidono altri 60 Cosacchi.
Il tutto mentre saliva da Tolmezzo una colonna di 30.000 Cosacchi, costretti a fare il giro per la Valcalda prima di arrivare al passo di Monte Croce. Come era facilmente prevedibile ci fu una reazione, che avrebbe potuto essere anche molto più pensante, il paese fu saccheggiato, alcune case incendiate e ci furono 22 morti, tra cui il parroco don Pietro Cortiula.
A quale scopo questo ultimo sacrificio imposto alla popolazione della Carnia, nel dispregio della massima del buon senso che “al nemico in fuga si fanno ponti d’oro”?...

Con rinnovato spirito di solidarietà
Tolmezzo ricorda i caduti per la libertà
e quanti nella Resistenza si opposero
per dignità non per odio
alla tirannide nazista.

Con queste parole di Calamandrei il sindaco Dalla Marta, (anch’egli partigiano in Val Pesarina), nel 1974 ha voluto ricordare il trentesimo anniversario della Resistenza con una lapide sullo scalone del Municipio. Bello il richiamo alla solidarietà come valore sul quale impostare il futuro.
Importante, a mio avviso, anche quel “quanti” a distinguere quelli che meritano il ricordo e la riconoscenza, da quelli che hanno coperto con i meriti dei primi i loro demeriti. Alcuni infatti furono veramente mossi dall’ideale di riconquistare la dignità per gli italiani, e per l’ideale misero a rischio ed anche sacrificarono la vita, altri si unirono a loro, paradossalmente, per dar corso all’odio, altri si associarono all’avventura senza nessuna convinzione ma solo per salvare la pelle.
E’ giusto che l’onore di primi ricada a merito di tutti?
Così facendo si offende la memoria di chi ha ingiustamente pagato, ha subito le rappresaglie, ha sofferto solo per poter dar da mangiare ai propri figli.
Anche questa è una pagina di storia della Carnia sulla quale, prima di voltarla sbrigativamente in una nuvola d’incenso, val la pena di riflettere, separando le luci dalle ombre, i meriti dalle colpe, la generosità dalla prepotenza, l’amore dall’odio.
Coprendola con il velo dell’epopea si perde l’opportunità di utilizzare la storia come maestra di vita. Le situazioni estreme servono anche a trarre i suggerimenti per poter operare al meglio nella normalità. L’epopea sul passato si è stesa come una nebbia anche sul presente, ed a volte ci ha impedito di leggere bene i fatti, di interpretare i comportamenti, ci ha impedito anche di trovare una intesa nello stabilire dove sarebbe stato giusto ed opportuno andare, cosa sarebbe stato necessario fare.
Abbiamo rinunciato a mettere in luce le tracce del percorso fatto, e ci siamo limitati la possibilità di proseguire con maggiore lena, avendo chiari gli obiettivi e la destinazione.
La sera del 7 maggio 1945 anche a Tolmezzo entravano finalmente gli alleati. Era finita!
Come riconoscimento al contributo dato dalla Carnia alla guerra di liberazione è stata concessa al Comune di Tolmezzo per la Carnia la medaglia d’argento con la seguente motivazione:

La gente carnica, che già durante il primo conflitto mondiale aveva subito una dura invasione e dato alla patria la vita di millecinquecento suoi figli, osò, dopo l'8 settembre 1943, lanciare una intrepida sfida all'invasore nazista e al suo alleato fascista, realizzando la Zona Libera della Carnia, lembo indipendente d'Italia retto dal governo democratico del C.L.N., formato da civili.
Così, con una continua, eroica e tenace lotta, le divisioni partigiane «Garibaldi» e «Osoppo», con l'appoggio delle popolazioni locali, uomini e donne, le quali rinnovarono le gesta delle «Portatrici» del 1915-18, liberarono una estensione di 3500 chilometri quadrati, e comprendente ben 42 comuni.
La difesa della Zona Libera e della sua capitale Ampezzo, costrinse l'occupatore a distogliere numerosi reparti di vari fronti operativi per impiegarli nella repressione che costò ben 3500 caduti partigiani e civili, migliaia di deportati ed internati, efferati eccidi, saccheggi, disumane rappresaglie soprattutto nei comuni di Enemonzo, Forni Avoltri, Forni di Sopra, Forni di Sotto, Ovaro, Paluzza, Paularo, Prato Carnico, Sutrio e Villa Santina.
La gente carnica seppe resistere fino alla gloriosa insurrezione di primavera che in Carnia si potè considerare conclusa solo il 10 maggio 1945.

Da Sindaco ho avuto l’onore di ritirare il riconoscimento dalle mani del Ministro della Difesa On. Spadolini, nel corso d’una grande cerimonia al campo sportivo di Tolmezzo..


Dal dopoguerra ai giorni nostri.

Uscendo dal disastro della seconda guerra mondiale ci si poteva aspettare venissero poste la basi per una politica di pace ed in effetti a livello mondiale si pensò ad una organizzazione che la potesse garantire, nacque così l’ONU. Ma con l’obbligo di dover deliberare all’unanimità si pose subito un vincolo alla sua operatività, mentre il contrasto ideologico tra URSS e USA e la divisione delle relative sfere d’influenza, costituì il presupposto di quella che sarà il periodo di tensione sempre sull’orlo di una nuova guerra che prenderà il nome di “guerra fredda”.
Il nostro divenne confine tra i due mondi, con il PCI che avrebbe voluto portare l’Italia nella sfera d’influenza sovietica e che mise in discussione anche il confine nei confronti della Iugoslavia che, secondo alcuni, avrebbe dovuto porsi sul Tagliamento.
Con la “dottrina Truman” gli Stati Uniti si autodefiniscono sentinelle della libertà ed si assumono il compito di intervenire nella vita interna di quei paesi dove si fosse determinata una minaccia per le libere istituzione. Con Il piano Marshall gli USA si proposero di favorire lo sviluppo economico dell’Europa, che fece i primi tentativi i unificazione fermandosi però con l’OECE e la CECA al piano economico.
L’Italia uscì dalla guerra sul piano politico con la costituzione nel giugno del governo Parri, leader del Partito d’Azione e uomo della Resistenza. In dicembre si formò il governo del democristiano De Gasperi formato da tutti i partiti del CLN.
Il 2 giugno 1946 si tennero le elezioni politiche per l’Assemblea Costituente e il referendum istituzionale. Prevalse la scelta per la Repubblica e il re Umberto II abbandonò l’Italia, primo Presidente fu Enrico De Nicola di sentimenti liberali.
A Tolmezzo sul piano politico si ripetè la situazione del primo dopoguerra e dopo una prima tornata vinta dalle sinistre con il sindaco Pesce, si consolidò il peso della democrazia cristiana che vinse poi per alcuni decenni con Moro, Rinoldi e Dalla Marta. Nell’immediato dopoguerra l’emergenza era di nuovo quella della disoccupazione. Durante il conflitto in qualche modo si era trovata una soluzione impegnando fra l’altro fino a 1.500 persone nell’organizzazione della Todt gestita a Tolmezzo dall’impresa Filipuzzi e impegnata, in particolare nel completamento del vallo alpino. Era questo il sistema di difesa realizzato traforando le montagne e creando ovunque ricoveri e postazioni, in previsione d’un eventuale conflitto con la Germania. A dimostrazione di quanto poco Mussolini si fidasse di Hitler, ma anche di quanto in poco conto si tenesse l’Italia, se nessuno era intervenuto ad impedire la realizzazione della linea di difesa
A livello sociale il dramma dell’emigrazione riprese con un rilievo drammatico che spinse il Sindaco Pesce ad immaginare addirittura la soluzione, nella costruzione di una nuova Tolmezzo in Uruguai.
A livello carnico Romano Marchetti proseguendo sull’idea della Zona Libera, e richiamandosi all’Associazione Pro Carnia, attiva sin dal 1927 propose il 20 maggio del 46 l’approvazione dello statuto della Libera Comunità di Carnia. Per l’intervento di Michele Gortani si perse il “libera” ed il 3 settembre fu approvato da una ventina di Sindaci lo statuto della Comunità Carnica della quale Gortani divenne Presidente, mantenendo la carica fino alla morte nel 1966.
Si pensava che una istituzione potesse andare oltre l’impegno culturale al quale doveva limitarsi l’Associazione “Pro Carnia”, ma in realtà, soprattutto nei primi anni di vita, anche la Comunità non poté caratterizzarsi che per importanti ordini del giorno. La svolta avrebbe dovuto avvenire con la legge 1102/71 che formalizzava l’istituzione delle Comunità Montane come enti di diritto pubblico con il compito di provvedere allo sviluppo economico e sociale delle aree montane, riconosciute come aree marginali, riducendo lo squilibrio tra zone di pianura e zone di montagna. “Ma ciò purtroppo non si è verificato, almeno nella nostra Regione” (Voltan).
Fino agli anni ’70 l’emigrazione assunse le caratteristiche di un esodo. Secondo stime prudenziali ancora nel 1960 in Carnia c’erano 11.523 emigranti stagionali e 10.851 permanenti. Tra il 61-71 in Alto Friuli si ha una perdita netta di 16.000 abitanti. Era la ripresa in forma massiccia e diversa della ricerca di trovare altrove ciò che il territorio non può dare.
Il fenomeno migratorio ha nella storia alti e bassi legati all’evoluzione demografica e forme diverse da quello dei cramars, all’emigrazione temporanea, all’emigrazione definitiva. E’ un fenomeno necessitato dalla povertà di risorse che può offrire il territorio. Come nota giustamente Veritti “l’abbassamento dei limiti altimetrici, la ristrettezza degli spazi pianeggianti, le pendici instabili, i detriti, le rocce in gran parte calcaree e dolomitiche, le acque rovinose, per cui neanche l’1,5% della regione è occupata a seminativi, e infine la polverizzazione della proprietà” impediscono lo sviluppo dell’agricoltura, e portano allo sviluppo della zootecnia, cercando di ridurre a prato anche spazi occupati dal bosco”. Ma non basta. E già dal periodo delle crociate i carnici mettono a frutto la posizione geografica, l’essere ponte tra Venezia ed il Centro Europa, e diventano mercanti porta a porta di spezie, farmacisti porta a porta dei medicinali del tempo. Mutate le condizioni con la fine di Venezia, ed il costituirsi delle Alpi a confine tra gli Stati, i carnici saranno costretti ad acquisire altre professionalità per poterle esportare e continuare ad essere richiesti all’estero.
La risorsa acqua la cui cessione avrebbe dovuto venir contrattata in cambio di investimenti per lo sviluppo del territorio, fu barattata prima con la SADE e poi con l’ENEL in cambio di modesti canoni idroelettrici a favore dei Comuni interessati dal prelievo, per riscuotere i quali si istituì il BIM Consorzio dei Bacini Imbriferi Montani. Il sistema di Sauris, Caprizi, Verzegnis, Cavazzo deturpò la Val Tagliamento mettendo il fiume in secca. Ed è stato solo il disastro del Vajont ad evitare che il programma di utilizzazione delle acque della montagna carnica si completasse con la captazione del Chiarsò, con due dighe una a valle ed una a monte di Paularo e con la captazione anche del Fella.
Alla fine degli anni ’60 si rilevano i primi segnali di una inversione di tendenza sul fronte dell’emigrazione Nel ’56 la Pirelli aveva acquisito la proprietà della Cartiera che potenziò nel ‘59 e ‘63 con l’installazione della seconda e terza macchina continua, quest’ultima la più grande nel suo genere a livello europeo. Nel ’63 finalmente a livello politico si prende coscienza della necessità di agevolare gli insediamenti industriali ed a tal fine si costituisce il Consorzio Industriale.
Nel ’64 nasce la Regione Autonoma e nella prima Giunta ricoprì l’incarico di Assessore all’Industria ed al Commercio il tolmezzino avv.Vittore Marpillero che favorì l’arrivo dei primi contributi a favore del Consorzio, e varò la legge di incentivazione dell’industria in montagna..
Nel 66 un segnale contrario venne dalla soppressione del “trenino” ossia dalla eliminazione del servizio trasporto merci che ancora si effettuava fino a Villa Santina. Al tempo l’allacciamento ferroviario era ritenuto una precondizione per lo sviluppo industriale e la reazione fu il memorabile sciopero generale della Carnia del 29 novembre 1967. Fu una manifestazione importante per la sensibilizzazione che favorì a livello locale sul tema dell’industrializzazione.
L’Amministrazione Dalla Marta con l’adozione del nuovo piano regolatore nel ’69 ebbe il coraggio di disegnare la nuova Tolmezzo, dotata di una vasta zona industriale e delle aree per l’espansione dell’edilizia popolare. In particolare lungimirante fu la scelta sul versante dello sviluppo industriale. La pressione nei confronti della Regione per la individuazione a livello urbanistico di un distretto industriale che comprendesse in un unico disegno anche Amaro e Villa Santina, si unì a quella sul governo per ottenere la sdemanializzazione delle aree individuate, e sulla Regione per ottenere la infrastrutturazione e il miglioramento della viabilità di accesso.
Le idee sono importanti ma camminano sempre con le gambe degli uomini e merito del Sindaco e dell’Amministrazione fu quello di trovare le necessarie sinergie a livello regionale e statale, potendo anche contare su validi punti di riferimento con la Regione nell’assessore Vittorino Marpillero e su Roma con il senatore Burno Lepre. Fu così che per merito di amministratori impegnati a vario livello, legati a differenti ideologie politiche, ma uniti nel comune obiettivo di realizzare una vera prospettiva di sviluppo per la Carnia, il nucleo industriale di Tolmezzo fu il primo ad essere finanziato dalla Regione e il primo a decollare realmente.
C’era il piano, la zona era infrastrutturata, ma si dovevano trovare gli imprenditori in grado di creare i posti di lavoro.
Già nel ’65, all’uanimità il Consiglio Comunale aveva approvato la proposta del Sindaco di donare l’area infrastrutturata per l’insediamento della ICCI Cartotecnica, che, collegandosi alla cartiera avrebbe favorito lo sviluppo in loco la filiera della carta. Alla fine andò in porto anche la lunga trattativa diplomatica con l’emigrante carnico Prometeo Candoni che a Parigi aveva attivato una importante iniziativa nel settore automobilistico e fu convinto a decentrare una succursale in Carnia.
Per valutare l’importanza di questi fatti è sufficiente fermarsi ad immaginare cosa sarebbe oggi la Carnia senza il migliaio di dipendenti della Seima!
Si iniziò a parlare concretamente d’un Progetto Montagna, di un piano cioè di sviluppo integrato della montagna e si aprì una discussione a livello politico locale poi portata in Regione su quali dovessero essere i presupposti fondamentali per lo sviluppo, quale fosse il futuro che si doveva immaginare per la montagna e per i suoi abitanti.
Già prima della guerra la Camera di Commercio di Udine sintetizzava in questi termini una sua posizione a favore dello sviluppo industriale: “Il problema non sarà risolto del tutto finchè della vasta ed infeconda zona montana non faremo una regione industriale, mercè lo sviluppo delle ferrovie, l’utilizzazione delle copiose energie idrauliche e la ricerca del carbone, dei minerali, dei marmi, di quanto insomma il suolo può offrire. Dall’assicurato lavoro in casa propria, trarranno i friulani un beneficio inestimabile, economico e morale”
Il socialista Enzo Moro diventato vice-presidente della Regione privilegerà lo sviluppo turistico del territorio, con una legge di adeguamento del patrimonio abitativo a favore del turismo e mettendo le basi per lo sviluppo dello Zoncolan. Si dovrà attendere l’87 per avere una legge che va sotto il nome di Progetto Montagna. Mentre nel frattempo si è persa anche l’occasione dei massicci finanziamenti arrivati in zona per la ricostruzione dopo il sisma del 1976, per impostare un organico progetto di sviluppo.
Il problema è complesso ed ha fra le altre anche una matrice culturale. Altre zone montane meno favorite della nostra per la viabilità, (soprattutto da quando con l’apertura dell’Autostrada Venezia-Monaco la Carnia s’è trovata al casello d’un autostrada di così grande importanza) sono diventate terra di elezione. La nostra ha continuata ad essere sentita come terra di condanna, i carnici hanno continuato a continuano a sentirsi irresistibilmente attratti dalla pianura, come in un indovinato titolo sintetizza il suo studio sul problema Cristina Barazzutti.
A complicare le cose, anche in quegli anni non mancarono le solite disgrazie naturali. Il 4 novembre del 66 una nuova alluvione sconvolse la Carnia con dodici morti. Furono sul punto di cedere gli argini a nord di Tolmezzo ed a Caneva. Nulla comunque a confronto del catastrofico terremoto del 6 maggio 1976. A Tolmezzo e nella conca tolmezzina, come si è già visto, si costruiva da tempo secondo le prescrizioni della legge antisismica, in conseguenza del terremoto del ’28. Il Comune fu dissestato e dichiarato disastrato, ma non ci furono morti, a conferma che chi vive in un territorio difficile, deve imparare a rimboccarsi le maniche prima degli eventi, se non vuole piangere dopo.
E questa può essere assunta come morale di tutto il racconto del percorso di Tolmezzo e della Carnia nella storia.



Appendice
Ad integrare la storia alcune leggende tratte dalla
raccolta “L’orma del tempo”.

La disfatta dei Carni.

Qualcuno sostiene che racconti sui Celti in Carnia me li sto inventando. Giuro che non è vero, che parto sempre da qualche documento. Ma nessuno mi crede. Non ho quindi grandi speranze mi si presti fede su questo importante ritrovamento che ho fatto in una vecchia casa di Formeaso, o per l’esattezza in un rustico adiacente. Il proprietario aveva incaricato una impresa edile di provvedere a rafforzare le fondamenta dell’edificio. Gli operai scavando nello scantinato, solo per caso, erano riusciti ad evitare un grave incidente sul lavoro. D’un tratto, una parte del pavimento era crollata, portando alla luce l’esistenza di un altro piano interrato.
Passato lo spavento per il rischio evitato di precipitare nel vuoto, gli operai avevano chiamato urgentemente l’impresario. Questi pensò bene di andar a vedere cosa ci fosse nel vano sottostante, non fosse altro perché si doveva pensare ad una variante, per rimediare all’imprevisto.
Si fece calare personalmente. “E’ solo una piccola grotta!” disse da laggiù. “La si può riempire con una betoniera di calcestruzzo e il problema è subito risolto, senza neppure scomodare l’ingegnere direttore dei lavori”. Alla sera avvertì della cosa il proprietario, spiegandogli di come era stato efficiente nel risolvere l’imprevisto…”S’immagini quali problemi se l’avesse saputo la Soprintendenza!...Prima di riempire il vano, ho comunque controllato, se c’era qualcosa, ma ho trovato solo questo recipiente arrugginito, che ad ogni buon conto le ho recuperato”.
Il mio amico s’era così trovato tra le mani una sorta di piccolo secchio chiuso, con il coperchio. Avrebbe voluto inveire contro l’impresario perchè aveva preso quella stupida decisione senza informarlo. Ma se la grotta era già stata riempita di calcestruzzo, non c’era purtroppo più nulla da fare. Non senza fatica riuscì ad aprire il secchio e si trovò tra le mani un rotolo di pergamena. Quando mi chiamò a vedere il reperto, gli dissi correttamente che avrebbe dovuto consegnarlo alla Soprintendenza. Convenni tuttavia con lui che sarebbe però scoppiato un finimondo. “Roba da finire in galera, per come erano andata le cose, per l’insipienza d’uno stupido impresario!…”
Mi lasciò la pergamena per alcuni giorni, e riuscii a trascriverla integralmente. Era scritta in latino e vi si parlava della conquista definitiva della Valle del But da parte dei Romani e della definitiva sottomissione dei Celti al potere di Roma. E’ vero che ho fatto l’insegnante di latino, e quindi avrei anche potuto tradurla alla lettera, ma a me sono sempre piaciute le traduzioni libere, nelle quali il traduttore reinterpreta il testo, mettendoci anche qualcosa di suo, e così ho reinterpretato liberamente anche la pergamena di Formeaso.
Non ho competenze sufficienti per stabilire a che epoca risalisse, ma giurerei che è stata scritta all’epoca dei fatti narrati, e quindi verso il quattrocento dopo Cristo.
“Racconto di come i Carni si sono infine sottomessi al potere di Roma”.
Così titola la pergamena, e si capisce subito che è un racconto di parte, l’interpretazione di un carnico che non può non prendere atto della fine dell’autonomia del Carni, ma che vuol farla passare quasi come una decisione autonoma, piuttosto che il risultato di una sconfitta militare. Comunque, da come sono andate le cose, almeno secondo il suo racconto, non penso abbia tutti i torti.
E’ vero che il trionfo per la vittoria sui Gallo-Carni (de Galleis Karneis) l’aveva celebrato il console Emilio Scauro nel 115 a.C. E’ vero che già da quei tempi la valle del But era stata occupata dai Romani che avevano costituito un loro avamposto tra Zuglio e Formeaso per presidiare la strada che portava al passo di Monte Croce. Ma è anche vero che la conquista si limitava al fondovalle e che sulle montagne della Carnia continuavano ad abitare indisturbati i Carni. Pare accertato anzi che tra i due popoli, per diversi secoli, si fosse stabilita una sorta di pacifica convivenza.
Ci fu un periodo quindi nel quale la Carnia era divisa in due parti: quella romana nel fondovalle e la Carnia libera dei Celti sulle montagne. C’erano due sistemi di viabilità, una romana di fondovalle, ed una celtica in quota. E’ stato evidentemente il periodo più importante per la storia della Carnia, quello nel quale, come in un crogiuolo si sono fuse due civiltà, quella celtica e quella romana, per dare vita ad una civiltà ed una cultura nuova, assolutamente originale, derivata dall’incrocio e dalla fusione lenta tra le due culture precedenti, così profondamente diverse.
Ma quando nella prima metà del Trecento, Costantino decise di creare un nuovo collante per l’impero, facendo della religione cristiana una religione di stato, si pose il problema di unificare sotto lo stesso Dio tutti i popoli dei territori dell’Impero romano. Anche in Carnia si pose quindi il problema di conquistare-convertire i Carni, che sulle montagne continuavano ad adorare Beleno.
Nel 370 l’imperatore Valentiniano, che si era dedicato con energia alla sistemazione dei confini, volendo rafforzare il collegamento con il Norico, decise di intervenire, da un lato migliorando la viabilità nella valle del But, dall’altro sottomettendo tutto il territorio. Della scelta di migliorare la viabilità resta traccia su una lapide a Monte Croce Carnico che ricorda gli interventi fatti nel 373 dal curatore Apinio Programmatio che aveva aperto nuovi tratti di strada.
Della scelta di procedere alla conquista definitiva dà atto la nostra pergamena, che trova conferma nella storia ufficiale dell’Imperatore Valente (364-375) che morì per un colpo apoplettico il 18 novembre 375 a Brigezio (Szony in Ungheria) mentre era impegnato a difendere dai Quadi i confini orientali dell’Impero..
Al mese di agosto dello stesso anno della sua morte, risalgono le vicende narrate nella pergamena. Transitando per la valle con l’esercito per andare in Ungheria aveva infatti deciso di fermarsi qualche giorno a Julium Carnicum per fare una spedizione sulla montagne, e ottenere la definitiva sottomissione dei Carni. Erano proprio i giorni in cui i Carni festeggiavano la festa di Lugnasad. Come si racconta anche nel mio romanzo ” I Celti ritornano”, i Carni erano soliti fare festa tutti assieme ogni anno in una località diversa. Quell’anno la festa doveva tenersi nella valle del Ciaròj.
Valentiniano si accampò con le sue legioni a Julium Carnicum e pensò di approfittare del fatto che per la festa di mezza estate si radunavano tutti i capi proprio nella valle di fronte. Gli sarebbe stato facile catturarli per farli prigionieri e conquistare definitivamente la Carnia.
Nell’attesa, diede anche ai suoi legionari la libertà di darsi alle feste in onore di Bacco.
A Julium Carnicum si festeggiava Bacco con il vino che le truppe romane avevano al seguito, nella valle del Cjaroi si festeggiava Beleno con una infinita varietà di idromele!
I Celti iniziarono i festeggiamenti già il venerdì, giornata dedicata alla religione ed alla cultura, e alla sera mentre impazzavano le musiche celtiche in ogni villaggio della valle, dai luoghi prominenti della valle venivano lanciate le “cidules” infuocate accompagnate da versi in onore di Beleno.
Il sabato la festa dilagò, e la valle fu tutta piena di suoni e di colori. Nella notte, in tutti i paesi ma persino nei casolari sparsi e fino in alto negli alpeggi, si accesero enormi falò, incendiando le cataste, “mèdes” costruite con le fascine di stecchi, che tutte le famiglie avevano predisposto per l’occasione, come omaggio alla divinità.
La domenica secondo la tradizione scesero tutti ad Arta a purificarsi alla fonte d’acqua pudia. Fu allora che Valentiniano mosse l’esercito da Julium Carnicum ad Arta.
Praticamente non ci fu scontro. I legionari si mescolarono ai Celti, i capi dei Celti si incontrarono con l’Imperatore e presero atto che non ci potevano essere due Carnie, una del fondovalle ed una delle montagne, ed accettarono di sottomettersi alla dominazione romana. Tutto si concluse nelle bettole di Arta, mescolando vino, birra e idromele...Sembra che da lì sia iniziata la tradizione per la quale in Carnia gli affari importanti si trattano all’osteria...
Che sia vero o meno, resta il fatto che il documento è stato assunto come fondamento per la tre giorni di rievocazione storica di questi avvenimenti, che si tiene ormai regolarmente in Carnia durante l’estate…


San Floriano ad Illegio.

Correva l’anno trecento dopo Cristo, dice la leggenda …
L’imperatore Diocleziano, predecessore di Costantino, aveva elaborato un progetto di riforma dell’Impero romano per metterlo in sicurezza, con una organizzazione capace di consentire all’Impero di resistere alla pressione delle continue invasioni barbariche. Attraverso il sistema noto con il nome di tetrarchia aveva diviso l’impero in due parti, quella orientale con capitale Nicomedia e quella occidentale con capitale Milano, con a capo due imperatori chiamati Augusti. Le due parti erano state poi a loro volta suddivise e affidate in parte a due Cesari, che avrebbero dovuto essere i loro successori. Vespasiano si tenne l’oriente è insediò come imperatore d’occidente Massimiano. L’impero fu poi organizzato in Diocesi rette da Vicari a loro volta suddivise in Province guidate da Prèsid. Il fatto assunse una grande importanza anche per i nostri territori, per la prima volta infatti sulle alpi carniche si stabilizzo un confine: quello che divideva la Provincia della Venezia et Histria da quella della Pannonia inferiore, importante perché era anche confine tra i due Imperi perché confine tra la Diocesi Italiciana, facente parte dell’Impero d’occidente e la diocesi delle Pannonie, parte dell’Impero d’Oriente.
Fra i due Imperi c’erano evidentemente delle relazioni, come tra le Diocesi e le Province, fu così che un certo Floriano veterano dell’esercito romano che ricopriva la carica di princeps offici a Cetia (presso l’odierna Kirchdorf an der Krems in Austria), fu mandato come ambasciatore dal Preside della Provincia della Pannonia al suo collega della Venezia et Histria. Non si sa quale fosse l’importanza del messaggio e dove l’abbia recapitato. Neppure nella “Passio Floriani” cioè nella biografia del messaggero, poi diventato santo, scritta nell’ottavo secolo, si dice nulla al riguardo. Comunque al ritorno da quel viaggio, per qualche motivo che non è ci è dato sapere, Floriano con i suoi uomini invece di prendere la strada per monte Croce per valicare le Alpi, prese quella per Lanza e si fermò a dormire nel romitorio di Illegio.
Fu svegliato nella notte dai paesani che gridavano “al fuoco”. Non era raro a quei tempi che scoppiassero degli incendi. Le case erano dei poveri tuguri ad una stanza sola, con il fuoco libero al centro protetto solo da alcuni sassi. I tetti erano fatti di scandole e quindi erano facilmente incendiabili. Bastava una “falisçje”, una scintilla che saliva troppo in alto, e la casa finiva in un rogo. Ma da una casa poi il fuoco non faceva nulla ad estendersi a quella vicina, ed una piccola scintilla bastava a provocare l’incendio di tutto un paese. Era già capitato altre volte anche ad Illegio, e sarebbe finita così anche quella sera se non fosse intervenuto Floriano…
Il veterano romano s’era da qualche tempo convertito alla religione cristiana, e viveva la nuova fede con una convinzione assoluta, come il Centurione romano di cui parla il Vangelo. Anche Floriano come il Centurione era convinto che, per chi ha fede, basti una parola per provocare un miracolo. Quando si trovò davanti la scena dei paesani che correvano con le anfore e le brocche a versare acqua per spegnere l’incendio, si rese conto da comandante militare quale era, che non ce l’avrebbero fatta: era troppo lontana la sorgente da cui si attingeva l’acqua dal luogo dell’incendio.
“Signore, fai sgorgare dell’acqua più vicino al fuoco!” gridò.
E come se le sue parole fossero state un comando, d’un tratto sgorgò dell’acqua abbondante, a formare un piccolo invaso. Attingendo alla nuova sorgente, in breve l’incendio fu domato e il paese fu salvo.
I suoi soldati e gli abitanti di Illegio che avevano assistito all’evento, fatto cessare l’incendio attorniarono Floriano chiedendogli come avesse fatto a compiere quel miracolo.
“Non c’è nulla di strano” rispose lui “per la nostra religione se uno ha fede quanto un granello di senape e dice ad una montagna “trasportati di qui sin là” essa si trasporterà, allo stesso modo è possibile che sgorghi dell’acqua da una montagna”.
Il ragionamento di Floriano non faceva una grinza, anche secondo nonna Giulia donna di fede che mi stava raccontando questa leggenda che non avevo mai sentito prima. Ma una leggenda non è il genere letterario più adatto per aprire una discussione di questa importanza sulla fede… Resta il fatto che ad Illegio si può ancora ammirare il Tof,una sorgente che sgorga improvvisa con una grande portata d’acqua al centro del paese e che ha fatto funzionare nella storia una serie di mulini e di officine e che ancora fa girare la macina dello storico mulino del Flec.
La storia di Floriano ci dice invece che rientrato in Pannonia durante l’ultima persecuzione dei cristiani voluta da Diocleziano, nella città di Lorch fu arrestato e condotto dal preside, il quale non riuscendo a farlo sacrificare agli dei, lo fece flagellare e quindi lo condannò ad essere gettato nel fiume Enns con una pietra al collo: la sentenza fu eseguita il 4 maggio 304. Il corpo fu, in seguito, ritrovato e seppellito da una certa Valeria e Floriano venne elevato agli onori degli altari come santo e martire.
Dal XV secolo, ed ancora oggi, viene invocato come protettore contro gli incendi perché, secondo una leggenda spense un incendio divampato in un edificio e secondo alcune varianti in una intera città, con un solo secchio d’acqua. La leggenda di Illegio è senza dubbio più credibile, e spiega anche la fede della nonna e di tutti gli abitanti di Illegio nel loro santo patrono.
Questo miracolo dell’antichità può spiegare anche come gli abitanti di Illegio mantengano ancora fede nelle capacità taumaturgiche di San Floriano, malgrado il fatto che nel 1700, il paese sia andato completamente distrutto dal fuoco proprio una sera nella quale tutti gli abitanti si trovavano a pregare nella chiesa dedicata al Santo, nella pieve che porta il suo nome.



Attila flagellum Dei.

Sopra Cason di Lanza in Comune di Paularo, sul sentiero che porta al passo omonimo, al confine austriaco verso Rattendorf, ci si imbatte in quella che viene chiamata la grotta di Attila. E’ una piccola fenditura nella roccia che un corso d’acqua, poco più che un ruscello, s’è scavato nel calcare durante i millenni. Una delle tante grotte che si incontrarono negli ambienti carsici, ma con un nome che la lega al grande condottiero degli Unni. Come mai? Cosa ha a che fare Attila con l’incantevole altopiano a cavallo tra l’Italia e l’Austria, tra Paularo e Pontebba?
Come si legge nella storia, Attila invase l’Italia nel 452 dopo Cristo, e dopo aver distrutto diverse città del nord, avrebbe distrutto anche Roma, se papa Leone non l’avesse fermato al Po. Secondo alcuni ad incutere timore al barbaro sarebbe stata la croce che il papa brandiva, alla stregua di una lancia. I soliti infedeli sostengono che in una mano teneva il crocefisso e nell’altra un bel sacco di monete d’oro, con le quali riscattava la città eterna da un nuovo sacco. Ma sono diatribe che interessano gli storici… Ciò che è certo, purtroppo, è che la prima città ad venire distrutta dal crudele condottiero è stata Aquileia, allora capitale del Friuli, e in qualche modo si collega a questo fatto la leggenda della grotta al passo di Lanza.
Da qui, da questo passo infatti, Attila aveva deciso di iniziare l’invasione dell’Italia, perché aveva saputo che qui era nascosta la spada di Marte che avrebbe garantito la vittoria in tutte le battaglie a chi la portava. Giordane lo storico al quale si deve gran parte delle notizie sulla vita del condottiero unno, afferma che un pastore al pascolo con il suo gregge aveva visto zoppicare una pecora, e non capendo la causa della ferita, aveva seguito le tracce di sangue lasciate dall’animale, trovando alla fine una spada sulla quale la bestia era inciampata brucando l’erba. Aveva quindi recuperato l’arma e l’aveva portata in dono ad Attila. Questi, pensando d’aver trovato la spada di Marte, si era convinto di essere stato eletto padrone assoluto del mondo intero.
Non so se sia credibile il racconto d’un pastore che trova per caso una spada magica, e tanto meno posso sapere se sia credibile la variante per la quale questo fatto sarebbe avvenuto proprio in Lanza. So invece per certo che qui, sull’altopiano, secondo una antica tradizione orale, ormai dimenticata, Attila ha trovato la famosa lancia che, come si racconta ancora in qualche leggenda friulana, era in grado di “infilzare tante persone in una sola volta”.
Era una lancia magica che pareva avesse una prolunga invisibile. Consentiva di trafiggere tanti uomini in un sol colpo, ma anche di perforare la roccia e quindi di demolire edifici. Il nome di Lanza, chiaramente derivato da lancia, costituisce una indiretta conferma della tradizione e della leggenda. E quindi si può stabilire con certezza che proprio qui Attila abbia trovato la lancia magica. Con altrettanta certezza si può ritenere che non ha trovato la spada di Marte, tant’è che non è diventato proprio invincibile.
Secondo una ricostruzione che, non senza fatica e dopo estenuanti ricerche, sono riuscito in qualche modo a mettere assieme, pare accertato che le cose siano andate più o meno nel modo che vado a raccontare...
Risulterebbe che nella notte dei tempi un essere magico, venuto forse da un altro pianeta, abbia forgiato per i Guriùs che lavoravano quassù per estrarre il ferro dalle miniere due armi straordinarie, una spada ed una lancia capaci di rendere invincibile chi le usava. Ma i Guriùs erano pacifici, credevano nell’arma della desistenza, piuttosto che in quella dell’offesa e non sapevano cosa farsi di armi da guerra. Non volendo tuttavia che le armi di distruzione venissero usate da altri, tennero consiglio per decidere che cosa farne. Prevalse il suggerimento del Druido che consigliò di purificarle, perché il loro maleficio non si diffondesse nel mondo e poi di nasconderle, perché nessuno potesse utilizzarle.
Si trovò quindi una soluzione intelligente, per purificarle e nasconderle allo stesso tempo.
Sull’attuale confine italo austriaco, proprio a ridosso del crinale che costringe le gocce di pioggia a separarsi per prendere delle strade assolutamente diverse: le une a scendere nell’Adriatico le altre invece attraverso il Danubio a finire nel Mar Nero, c’era (e c’è ancora!) una sorta di piccolo anfiteatro naturale, all’interno del quale affiora una polla d’acqua. Era una sorgente sacra per i Guriùs. Credevano infatti avesse il potere di riportare in pace l’animo di chi la beveva. Il Druido propose di immergervi le armi, e poi di coprire il tutto. L’acqua della pace avrebbe vinto per sempre la carica distruttiva delle armi. I Gurius rinunciavano alla loro pace, per portare la pace nel mondo!...
Con una grande cerimonia alla quale partecipò tutto il popolo dei Guriùs, una notte di luna piena, di fronte al monte Zermula che brillava come fosse d’alabastro, deposero la spada e la lancia nella sorgente e poi, di giorno in giorno, le coprirono con tutto il materiale di risulta che andavano estraendo dalle miniere.
Quando abbandonarono l’altopiano, perché non c’era più ferro da cavare, al posto dell’anfiteatro naturale, c’era una enorme montagna artificiale, costruita con i sassi che avevano estratto. E sotto al grande cumulo c’erano le armi magiche… Il fatto avrebbe dovuto restare un segreto di quelli che si perdono nello scorrere del fiume del tempo, con la morte dell’ultimo Guriùt. Ma, come diceva anche mio nonno, i segreti sono come l’odore della polenta, per quanto tu chiuda imposte e finestre, si diffonde all’esterno, e tutti sanno che in casa si mangia polenta.
Allo stesso modo in tutta l’Europa si diffuse la leggenda delle armi magiche dei Guriùs, nascoste sui piani di Lanza. Tuttavia, malgrado ripetute ricerche nei secoli successivi, nessuno era riuscito a trovarle e neppure si era riusciti ad individuare il luogo esatto ove potevano essere nascoste.
La notizia arrivò anche ad Attila che, avendo deciso di invadere l’Italia, colse l’occasione per entrare proprio dal passo di Lanza, alla ricerca delle armi magiche che l’avrebbero reso invincibile.
“Se ci sono queste armi, io le troverò!” diceva ai suoi salendo al passo dalla valle del Gail. “Se i folletti sono stati tanto furbi nel nasconderle, io sarò più furbo di loro nel ritrovarle.” In effetti quando, appena superato il passo, si vide davanti un enorme montagna che pareva sorta dal terreno circostante, per effetto d’un vulcano, intuì al volo che proprio quello era il colpo di furbizia dei Guriuts.
“Qui non ci sono vulcani!” disse ai suoi. “E’ evidente che questa è una montagna artificiale. Scavatela. E, se non si tratta di una favola, ritroveremo le armi magiche!...”
Diede quindi l’ordine a tutti i soldati del suo immenso esercito, di riempire gli elmi con i piccoli sassi che avevano scaricato i Guriuts. L’esercito prese ad avanzare come una fiumana che scendeva sui prati di Val Dolce per poi risalire al passo di Zermula e ridiscendere nella valle di Incarojo, passando per il cimitero celtico di Minsincinis. Man mano che l’esercito avanzava, la montagna dei Guriùs, diminuiva. Era come se fosse stata fatta di neve e si stesse sciogliendo al sole di primavera. Erano così numerosi i soldati dell’esercito, che in breve tempo riapparve l’anfiteatro e la fonte sacra dove i Guriùs avevano deposto le armi. Agli ultimi passaggi, Attila volle assistere di persona. Era sicuro che si sarebbero ritrovate le armi, e non voleva perdersi il momento della scoperta…
In effetti, come si può vedere anche adesso, riemerse una sorgente, dalla quale aveva origine un piccolo ruscello che, dopo un percorso di pochi metri, si inabissava in una caverna. Dall’acqua della fonte, emerse la lancia là dove era stata deposta dal Druido dei Guriùs, ma della spada che avrebbe garantito l’invincibilità a chi la portava, non si trovò traccia. O meglio, si capiva benissimo che l’acqua miracolosa della pace, l’aveva sciolta. Si vedevano distintamente le tracce di ferro lasciate nella sorgente e nel ruscello che spariva nella grotta. Attila ordinò al suo scudiero nano di entrare nella grotta, alla ricerca della spada. Ma questi ritornò dopo poco tempo raccontando che la grotta faceva un gomito, ma poi si interrompeva, appena dopo pochi metri, e l’acqua si perdeva nella roccia per scendere chissà dove…
Per la rabbia il feroce condottiero uccise il nano trafiggendolo con la lancia che aveva appena impugnato. Ma la morte del nano non fece sbollire la delusione per non aver ritrovato la spada, che l’avrebbe reso invincibile. Si può immaginare quali imprecazioni abbia rivolto ai Guriùs che avevano distrutto per sempre la spada dell’invincibilità…
Scese comunque in Friuli con il grosso del suo esercito, per dare man forte all’avanguardia che aveva mandato in avanscoperta e che già da alcuni mesi stava tentando inutilmente di espugnare Aquileia.
“Ma cosa devono fare i soldati dei sassi che hanno raccolto negli elmi?” gli chiesero i generali quando furono nella pianura friulana.
“Rifacciamo in pianura la collina che nascondeva la mia lancia,” rispose. “Voglio salirvi in cima, per contemplare da lassù l’incendio di Aquileia, la prima di tante città italiano che andremo a saccheggiare”. E indicò un luogo nella piana tra i torrenti Cormor e Torre che volle si chiamasse con il nome di U-Din. Era il nome dello scudiero che aveva trafitto con la lancia. Pentendosi d’aver ucciso in un momento d’ira il nano che gli aveva allietato tante serate, inventandosi le leggende più fantasiose, voleva che restasse perenne il suo nome. Un nome che avrebbe ricordato nei secoli che l’ira ricade sempre a danno di chi l’alimenta. Il povero nano non aveva avuto altra colpa se non quella di non aver ritrovato una spada che era impossibile ritrovare, perché s’era sciolta nell’acqua della sorgente della pace.
Mentre il grosso dell’esercito, passando nel luogo indicato, prese a dar forma alla collina artificiale, Attila raggiunse l’esercito appostato attorno ad Aquileia. Si pose subito alla testa, ordinando un nuovo attacco alla città. Con la sua lancia magica demolì la torre nord e dalla breccia l’esercito si rovesciò dentro alle mura della città, come si rovescia sulla campagna un fiume in piena che è riuscito a far breccia in un argine.
Lasciati i suoi a divertirsi nel saccheggio della città, Attilà cavalcò di nuovo verso la collina che intanto i suoi soldati avevano formato, e salì sulla cima per godersi lo spettacolo dell’incendio della città romana.
Una leggenda racconta che, sul far della sera, una colomba sia uscita dalla città di Aquileia, ed abbia raggiunto Attila, in attesa sulla montagnola artificiale, per annunciargli l’inizio dello spettacolo. Può anche essere, se si vuole credere alle leggende…Certo è che avendo egli dato l’ordine di procedere all’incendio al calare della notte, non aveva bisogno di annunci per avere conferma che il suo ordine sarebbe stato rispettato…E infatti quella sera l’orizzonte del Friuli, a sud verso il mare, divenne una striscia di fuoco. Pareva che la pianura avesse dato vita ad un drago di fuoco dalle mille lingue che si agitava tra il cielo e la terra. Attila si vide come trasformato in quel drago e pensò che gli dei, facendogli ritrovare la lancia magica gli avessero concesso il potere su tutta l’umanità…
Secondo lo storico Procopio le cose andarono diversamente. L’assedio fu talmente lungo che alla fine Attila s’era quasi deciso a rinunciare, ma quando vide uno stormo di cicogne che fuggivano dalla città con i loro piccoli, si rese conto che i difensori dovevano essere allo stremo, decise quindi di resistere ancora ed alla fine Aquilieia fu presa ed incendiata..
Le cicogne della storia diventano le colombe della leggenda e chissà poi come sono andate veramente le cose. Comunque non aveva trovato la spada che l’avrebbe reso invinciile .. Fu così che quando si trovò davanti a papa Leone che reggeva la croce astile, ebbe il dubbio che fosse invece costui ad avere la spada di Marte, e decise di rinunciare alla conquista di Roma. Così sono andati i fatti nella ricostruzione che sono riuscito a fare…
Attila si era messo ad attendere il papa in atteggiamento provocatorio, con una mano sulla lancia piantata a terra e con l’altra appoggiata all’elsa della spada. Ma il papa, dimostrando di non temerlo, s’era piantato di fronte a lui con analogo atteggiamento di sfida, puntando a terra una strana lancia che finiva in alto con una elsa a forma di croce, sulla quale spiccava in rilievo la scultura di un uomo crocefisso. Il capo degli Unni, molto superstizioso pensò che poteva anche trattarsi di una strana lunghissima spada, la spada di Marte appunto, con l’elsa ornata dalla figura magica di un Dio crocefisso…
“Deve essere questa l’arma che rende invincibili” pensò il barbaro, impressionato anche dall’imponenza dell’uomo che gli stava di fronte, che non a caso era soprannominato “magno”. Il papa per l’occasione s’era anche vestito con i paramenti sacri, portava un piviale ricamato d’oro ed aveva in testa una enorme mitria dorata e ornata di pietre preziose, che gli conferivano l’immagine di una grande forza ed imponenza.
Come ho già detto, qualcuno sospetta che il papa avesse con se anche qualcosa d’altro per convincere il barbaro a rinunciare all’idea di conquistare Roma. Ma io ritengo sia stata proprio quella strano oggetto che il papa aveva piantato in terra a mo’ di lancia, a fargli cambiare idea. Attila non poteva sapere che si trattava soltanto di una croce astile…
A volte le convinzioni ci influenzano più della realtà…
Comunque, come siano andate le cose tra Attila e Papa Leone è una verità che può interessare soltanto gli storici. Ai carnici interessa maggiormente la verità per la quale il castello dove siedeva il Parlamento del Friuli è costruito su terra di Carnia. Se questo non è un fatto emblematico su cui riflettere… a conferma che ben a ragione la Carnia è stata definita la madre del Friuli...
Agli abitanti di Paularo, ed ai turisti che frequentano la valle d’Incarojo, può interessare invece ancor più sapere la fine che ha fatto l’acqua carica delle molecole di ferro della spada miracolosa dei Guriùts... Chi sale ai piani di Lanza, si imbatte ancora oggi nella fonte che poi si insinua nella grotta di Attila, e può constatare senza ombra di dubbio, per i residui lasciati dall’acqua sui sassi del greto, come sia effettivamente un’acqua che trasporta del ferro. Ma per trovare l’acqua ferruginosa non occorre salire fin lassù… L’acqua che, come ha dovuto constatare il nano di Attila, si perde all’interno della grotta, filtra poi tra le rocce del monte Zermula e fuoriesce subito sotto alla borgata di Ravinis, a fianco del cimitero dei Celti a Misincinis, E’ un’acqua che conserva ancora la capacità di ispirare la pace, come faceva all’origine la fonte dei Guriùs, ed allo stesso tempo di trasmettere la forza che gli viene dal ferro della spada magica, che continua a sciogliersi all’interno della montagna.
Chi la beve ne ricava forza da usare in pace!…
E’ la forza che gli uomini imparano ad utilizzare, non contro gli altri, ma in pace con i propri simili, con la natura e con tutto il creato, ed a proprio vantaggio e beneficio. Una forza da utilizzare per esaltare il proprio spirito di intraprendenza e la propria libertà, che deve trovare un limite soltanto nella libertà degli altri. E’ la forza che in passato ha fatto di Paularo la culla di tanti grandi imprenditori, a cominciare da Jacopo Linussio.
Da un po’ di tempo, (è più che evidente!), gli abitanti di Paularo non si abbeverano alla fonte dell’acqua ferruginosa. L’hanno sistemata molto bene…oggi l’acqua fuoriesce da un bellissimo mascherone, a ricordo dell’ origine mitica dell’acqua, ma gli uomini hanno smesso di berla e quindi di assorbirne i suoi poteri magici, e la capacità di mettere in sintonia la forza con la pace…
C’è da augurarsi che i giovani della valle del Carojo, quelli che vengono in ferie nella valle, e tutti i giovani carnici, riprendano l’abitudine di dissetarsi a questa fonte...



Apex mentis, la scintilla del sentimento.

Nella stranezza di certi toponimi si celano delle vicende umane straordinarie, arrivate sino a noi dai menadri della storia umana. Così mi diceva mio nonno introducendo il racconto della storia d’amore tra Clevis e Launa che, a suo dire, era rimasta impigliata nel nome della località di Clevis, un podere tra i paesi di Terzo e Cazzaso nel Comune di Tolmezzo, e del torrente che scende a fianco dei prati e dei boschi della località stessa. Una storia d’amore tra un principe ed una principessa, ambientata nel Medioevo e finita tragicamente… “Non si capisce perché per restare nella storia dei luoghi, si debba finire in tragedia!” commentava lui.
Condividevo il suo commento sulla stranezza d’una umanità che preferisce ricordare i fatti negativi e tragici invece che quelli positivi, avevo dei dubbi invece sul fatto che la vicenda potesse riferirsi veramente a principi e principesse. Era senza dubbio un’enfasi legata al desiderio di dimostrare che i nostri paesi hanno avuto una storia importante. Comunque cercando di contestualizzare i riferimenti storici che si potevano desumere dal suo racconto, ho potuto datare la vicenda, con sufficiente certezza, nella prima metà del 1300. Ho potuto anche acclarare che i due protagonisti non erano proprio dei principi ma soltanto figli di due gismani della Carnia del tempo, cioè di piccoli feudatari che vivevano nei castelli costruiti sui modesti feudi loro assegnati dal Patriarca di Aquileia.
La lotta delle investiture si era già conclusa da diverso tempo in Italia, e i Papi del momento come Giovanni XXII vivevano ad Avignone. In Europa si stavano formando gli Stati moderni, in Italia erano nati i Comuni e poi le Signorie. Nella confinante Venezia si affermava la Repubblica marinara. Il Friuli invece, restava ancora sotto il dominio del Patriarcato di Aquileia che univa nelle sue mani potere temporale e spirituale, e si poneva pertanto, ancora nel 1300, il problema di chi avesse titolo alla nomina del Patriarca. Continuava quindi in Friuli una sorta di divisione tra guelfi e ghibellini, i primi fedeli al Patriarca i secondi più legati all’Imperatore. Continuava, tra le due fazioni, più o meno violenta e più o meno aperta, a seconda dei momenti, la lotta per le investiture. E in qualche modo la nostra vicenda si inquadra in questa lotta, con un episodio locale che coinvolse i Gismani di Fusea e di S.Lorenzo.
Il primo aveva in feudo i territori a mezza costa sui quali ci sono ora gli abitati di Fusea e Cazzaso e s’era costruito il castello sulla prominenza sulla quale sorge la chiesa del paese di Fusea. Il secondo aveva invece il possesso dei terreni sui quali si sviluppano ora i paesi di Terzo e Casanova, e s’era costruito un castello sulla rocca sopra l’abitato di Casanova, nota ancora adesso come Pra Castello. Il castello prendeva il nome di S.Lorenzo perché costruito sui resti di una precedente chiesa dedicata a un santo di questo nome, che forse non era neppure il famoso martire della graticola, ma un personaggio della storia locale che aveva tratto vantaggio dall’omonimia. Forse proprio quel Lorenzo di cui parla il Grassi che sarebbe stato inviato da San Ermacora o addirittura da San Marco ad evangelizzare le montagne della Carnia.
Dei due castelli non è rimasta traccia e già nel 1435 gli eredi di Artico di Castello testimoniavano in una lite per la successione, che i due castelli “oggi sono in stato di desolazione e le loro mura distrutte”. Su quando sia avvenuta la distruzione, anche il racconto di mio nonno serve ad apportare qualche ulteriore elemento di conoscenza.
Quintiliano Ermacora nel suo “De Antiquitatibus Carneae” scrive che nel 1352 il Patriarca Nicolò di Lussemburgo fratello naturale dell’imperatore Carlo IV, avendo riportato la vittoria sulla lega tra i Gismani della Carnia guidati da Ermanno di Luint, che avevano preso parte alla congiura ordita per uccidere il suo predecessore Bertrando, distrusse tutti i loro castelli tra cui quelli di S.Lorenzo e di Fusea. La notizia è vera per quanto riguarda il fatto che anche questi castelli sono stati distrutti in quegli anni, come tutti gli altri della Carnia, è imprecisa perché in realtà questi due ultimi erano già stati distrutti qualche anno prima dal terremoto del 1348 almeno secondo quel che si desume dal racconto della storia d’amore di Launa e Clevis che si è tramandata oralmente fino a mio nonno, e che qui vado finalmente a trascrivere.
La Carnia nel Medioevo era governata dal Patriarca attraverso un Gastaldo che risiedeva a Tolmezzo, ma poi lo stesso Patriarca aveva concesso in feudo dei territori a dei Gisamni che dipendevano direttamente da lui, fra questi, come si è detto, c’erano anche quelli di Fusea e di S.Lorenzo. Il primo era molto legato al Gastaldo della Carnia e quindi al Patriarca, il secondo pur essendo feudatario del Patriarca, come molti altri suoi colleghi carnici, aveva una particolare simpatia per l’imperatore, che al tempo era Ludovico il Bavaro, e per questo aveva anche mandato il figlio Clevis a soli quindici anni a studiare in Germania.
L’aveva mandato a impratichirsi nelle arti marziali all’accademia militare di Colonia, ma il giovane, d’animo molto sensibile, era più portato agli studi filosofici che alle armi, e proprio a Colonia ebbe l’avventura di incontrare Meister Eckhart e di innamorasi della sua filosofia. Morto il maestro nel 1328, Clevis rientrò al castello paterno, ma i tre anni con il famoso mistico l’avevano profondamente segnato.”L’avevano stregato” ripeteva suo padre che non riusciva a darsi pace di come un giovane appena diciottenne si perdesse a disquisire per capire se l’uomo possa o meno definirsi figlio di Dio, e che cosa si dovesse intendere con questo concetto. S’era messo con tutto il suo impegno a rieducarlo. Anche perché con questa sua nuova mania della “ricerca di Dio”, il figlio si sentiva più vicino al Patriarca che all’Imperatore.
“Va a capire tu il destino!” brontolava tra se il vecchio Gismano del castello di San Lorenzo. “Mandi un figlio a studiare nella patria dell’Imperatore perché ritorni avendo confermati i principi di fedeltà all’Imperatore, e ti ritorna invece sostenendo che chi comanda in spiritualibus è superiore a chi comanda in materialibus. E’ come aver speso per mandare uno a studiare dai monaci, che poi ti ritorna sostenendo che Satana, il principio del male, è da preferire a Dio, principio del bene”. Quando poi si venne a sapere che, da morto, Meister Eckhart era stato condannato per eresia le preoccupazioni paterne aumentarono a sentire il figlio disquisire sul fatto che “l’uomo può diventare letteralmente Dio, separato dall’essenza divina solo in quanto l’uomo è Dio per grazia e Dio è tale per natura”. Già ce l’aveva con lui il Patriarca, e per lui il Gastaldo della Carnia, per il fatto che dimostrava simpatie per l’Imperatore. Se si fosse venuto a sapere che nutriva nel suo castello la serpe di un eretico ce n’era abbastanza per essere presi di mira e finire su qualche rogo.
E non bastava ciò che andava dicendo, quell’originale di suo figlio!... Si mise anche ad operare di conseguenza. Le Chiese a quei tempi erano all’interno dei castelli, e questo consentiva ai feudatari di avere un controllo assoluto sul popolo che nelle domeniche e per le feste comandate era obbligato a venire a castello per la Messa. Clevis prese a sostenere che il luogo della preghiera doveva essere “di tutti e per tutti”. Passando dal dire al fare, facendosi aiutare sia dai servi della gleba di suo padre che da quelli del Gismano di Fusea, prese a costruire una Chiesa su un terreno incolto al confine tra i due feudi, più o meno dove oggi sorge il paese di Cazzaso, come luogo di culto aperto a tutti. “Fuori dai confini delle proprietà terrene,” così andava dicendo. E invece che dedicarla, come d’uso, a uno dei tanti santi del martirologio cristiano la volle dedicata al Santo Spirito. Una chiesa fuori dai castelli, dedicata allo Spirito santo! Inconcepibile…”Ma soprattutto costruita da servi della gleba di due feudi diversi…, quando si sa che i servi hanno una dipendenza personale dal loro feudatario-padrone dal quale ottengono la concessione delle terre ad runcandum e ad pastinandum, con patto cioè di dissodamento e messa a cultura”.
Che con i figli le sorprese non finiscono mai, il Gismano dovette di nuovo rendersi conto quando alla fine venne anche a scoprire che Clevis se la intendeva con Launa, la figlia del suon peggiore nemico, appunto il Gismano suo confinante di Fusea. Va bene le idee balzane, ma questo era veramente troppo! Era da generazioni che i due feudatari si facevano la guerra senza riuscire ad accordarsi sui i confini tra i due feudi. Si può pensare che, trattandosi di feudi in concessione, non doveva essere problema loro quello di stabilire i confini. Ma gli atti del Patriarca che li infeudava lasciava dei margini di interpretazione, soprattutto sui confini nella zona di Cazzaso.
Il feudo di Fusea era povero d’acqua e i suoi abitanti avevano avuto il permesso di costruire un mulino nell’unico luogo dove c’era acqua a sufficienza, ma il posto era talmente in basso che si poteva presumere fosse già nel territorio della borgata di Terzo, e quindi nell’ambito del feudo di S.Lorenzo. Spinti anche dalla necessità, non essendoci altra possibilità per far funzionare un mulino ad acqua quelli del feudo di Fusea sostenevano che il mulino fosse su terreni di loro competenza. Ma quelli di S. Lorenzo facevano riferimento ai principi e al diritto, non alle necessità, ed erano disposti a fare ogni tipo di battaglia per la difesa dei propri diritti. Il buon senso avrebbe suggerito di costruire più mulini, a diverse quote, sullo stesso torrente, ma con il buon senso non s’è mai fatta la storia…
I due Gismani contendenti si erano appellati più volte al Patriarca, perché dirimesse la controversia. Erano state emanate più volte delle sentenze che avrebbero dovuto essere definitive, ma che venivano poi messe in discussione da quella delle due parti che si riteneva colpita ingiustamente dalla sentenza. L’unica cosa che sembrava ormai assodata era l’odio che nei secoli quelli di Fusea dovevano nutrire verso quelli di S.Lorenzo e viceversa.
Per questo si può immaginare quale scompiglio abbia provocato la notizia che Clevis il primogenito del Gismano di S.Lorenzo se la intendeva con la figlia del Gismano di Fusea. Si può solo immaginare le discussioni nei due castelli, per convincere i due giovani a cambiare idea. Ma ogni tentativo, sia con le buone che con le cattive, sia da una parte che dall’altra, risultava vano, perchè Launa sembrava come stregata da Clevis, e questi continuava a dire che preferiva morire piuttosto che rinunciare a lei.
Tutto era iniziato una sera ad una festa da ballo nel castello di Tolmezzo, organizzata dal Gastaldo della Carnia per i figli dei castellani del territorio. Per Clevis che aveva più di trenta anni, l’età per sposarsi era già maturata da un pezzo, come diceva suo padre, ma lui non si decideva. Con quel che andava predicando, si poteva anche immaginare stesse pensando a strade diverse rispetto a quelle del matrimonio. Suo padre quasi se l’aspettava, non sarebbe stata una sorpresa se un giorno gli avesse chiesto di potersi fare frate domenicano come il Meister tedesco.
Ma siccome siamo tutti nel misterioso disegno della Provvidenza, questa usò il ballo al castello per far trovare la strada a Clevis. In un angolo del salone intratteneva un gruppo di ragazze spiegando le teorie del Meister sull’apex mentis, su come ci si debba distaccare da tutto e fare il vuoto in se stessi perché in questo vuoto entri Dio, come una lingua di fiamma o una scintilla che si stacca dal fuoco e s’innalza nel vuoto. O come il lampo del fulmine che si forma nel vuoto dell’aria nei temporali estivi. E proprio come un colpo di fulmine a ciel sereno, nel vuoto del suo cuore entrò lo sguardo di lei e fu veramente come un apex mentis, una scintilla dell’anima che accese un fuoco irresistibile nel suo cuore..
L’unica cosa che non avrebbe contribuito a risolvere la situazione era una guerra tra i due castelli, anche perché il problema riguardava i due giovani, e non i feudatari. E fu invece così, come era già stato mille volte nella storia, e lo sarà tante altre volte, che si diede inizio ad una guerra. Non si capì veramente neppure chi l’avesse dichiarata. Alle volte, anche tra gli uomini, avviene qualcosa che è tipico degli animali: due galli si fronteggiano per dissuadersi a vicenda, e poi invece d’un tratto si assaltano furiosamente, senza che si riesca neppure ad individuare chi abbia iniziato per primo.
In questo caso si arrivò al paradosso che gli uomini del gismano di S.Lorenzo si presentarono ad assalire il castello di Fusea nello stesso momento in cui quelli di Fusea stavano assalendo il castello di S.Lorenzo. Si erano mossi nella medesima notte assieme, senza incontrarsi perché avevano scelto due percorsi diversi, gli uni salendo per la località di Chiarandes, gli altri scendendo invece dai pianori di Cazzaso. Entrambe le spedizioni di trovarono quindi ad assalire due castelli sguarniti d’ogni difesa, fu quindi facile per entrambi la presa del castello che fu, come d’uso, dato alle fiamme. Ma mentre si accanivano ad appiccare il fuoco a muri di pietra che, evidentemente, non era poi così facile incendiare, ad aiutare gli uomini scalmanati nella loro foga distruttiva intervenne la natura.
Proprio in quella notte avvenne ciò che Giovanni Villani riporta nella sua famosa “Cronaca” “a’ di 25 gennaio, in venerdì, il dì della conversione di San Paolo, a ora ottava e quarta presso a vespro, che viene ore cinque in fra la notte, fu grandissimo tremuoto e durò per più ore, il quale non si ricorda per niuno vivente il simile. In Udine cadde il castello di messer lo Patriarca e più altre case…Per Carnia più di millecinquecento uomini sono trovati morti per lo tremuoto, e tutte le Chiese di Carnia sono cadute e le case e il monasterio di Osgalche e quello di Verchi”.
Il rilievo dei due castelli non era tale da trovare riscontro nella Cronaca del Villani ma a ciò che avvenne ben s’attaglia la nota con la quale Villani chiude la sua cronaca “le sopraddette rovine e pericoli de’ tremuoti sono grandi segni e giudici di Dio, e non senza gran cagione e per missione divina; e di quelli miracoli e segni che Gesù Cristo vangelizzando predisse a’ suoi discepoli, che dovevano apparire alla fine del mondo”.
Avvenne infatti che mentre gli uomini si stavano accanendo a distruggere i due manufatti, intervenne la natura per distruggere assieme i manufatti e gli uomini. Nel crollo dei due castelli causato dal terremoto, furono travolti tutti gli uomini che si stavano impegnando per la loro distruzione, e che entrano nella conta dei mille e cinquecento morti del Villani!.
Clevis e Launa ignari di ciò che i loro genitori stavano organizzando per quella sera, e di quanto il Padre Eterno aveva preparato per le stesse ore per punire gli uomini, s’erano fermati nella piccola Chiesa di S.Spirito appena costruita, non è dato a sapere se a pregare o a fare cosa... Videro la Chiesa agitarsi e sussultare come travolta in un orgasmo sfrenato, ma quando la terra smise di scuotersi, sarà stato un miracolo, o sarà stato il fatto che era stata appena costruita e la struttura era stata realizzata anticipando inconsapevolmente la normativa antisismica, i due si erano trovati abbracciati vuoi per lo spavento vuoi nell’istintivo gesto di difendersi a vicenda, vuoi perché lo erano già prima dello scatenarsi del sisma… Ed erano salvi, senza neppure un graffio, in una costruzione che non aveva subito alcun danno…
Di quegli attimi, che erano sembrati infiniti, e nei quali s’erano visti morti restava soltanto nel loro cuore una sensazione di vuoto, che non sarebbero più riusciti a cancellare, come il vuoto di cui parlava Eckhart…Clevis andava predicando sulle orme del Meister che si deve imparare a vivere, senza porsi un perché. “Io vivo perché vivo” doveva essere il motto al quale uniformare i propri comportamenti. La Provvidenza l’aveva messo alla prova, facendogli vivere la situazione estrema dello scatenarsi della natura contro gli uomini, quando ogni perché resta senza una possibile risposta …
E qui a sorpresa si interrompe il racconto della loro storia. Forse a seguito d’un voto che avevano fatto assieme, vedendosi arrivare la morte con il terremoto, si allontanarono dal paese senza dare più notizia di sé. Si può presumere siano finiti in un convento…ma la misteriosa scomparsa ha dato ai narratori del tempo la possibilità di trasformare in una favola la chiusura del racconto.
Launa fu trasformata in una Agana cioè in fata d’acqua e vive ancora nel torrente che porta il suo nome. Clevis la sta ammirando incantato per l’eternità nascosto nel bosco che fiancheggia il rio e che non a caso porta il suo nome. Diceva mia nonno che attraversando il bosco sul far della sera quando spira la brezza di valle, chi riesce a fare il vuoto nella sua anima, sente ancora la voce di Clevis che continua a costruire dei bellissimi versi per cantare la sua donna. Ma forse nella società postmoderna nella quale viviamo, s’è persa la capacità di fare il vuoto nel quale può scoppiare la scintilla dell’animo o dell’anima che dir si voglia…
Può essere che la conclusione in chiave favolistica sia stata aggiunta, come dicevo all’inizio, solo per spiegare i toponimi. Come potrebbe essere anche che tutto il racconto sia stato inventato allo stesso scopo. Mi pare tuttavia eccessivo lo sforzo di costruire un racconto così articolato solo per giustificare dei toponimi, quando a farlo sarebbe bastata la favola finale. E questa considerazione conclusiva, a mio avviso, è più che sufficiente per dimostrare che si tratta d’un racconto storico, e non l’invenzione frutto della fantasia di qualcuno dei raccontastorie vissuti in Carnia in ogni epoca, fino ai tanti, come mio nonno, vissuti nel secolo scorso.
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Precefic e i sassi che dicono poesie.

Non è per dar torto alla Bibbia. Ci mancherebbe! Ma potrebbe anche darsi che l’evoluzione della specie animale fino alla nascita dell’uomo, non sia avvenuta in tutti i luoghi del globo terracqueo, allo stesso modo. Non metto in dubbio che nel Medio Oriente, dopo aver ordinato alla terra di produrre “esseri viventi secondo la loro specie”, Dio il giorno dopo abbia creato l’uomo a sua immagine. Ma da noi, in Europa prima dell’età dell’uomo, c’è stata quella dei piccoli uomini: la terra era popolata dagli Sbilfs e le acque dalle Agane. A Tolmezzo gli sbilf abitavano alle falde del monte Strabut, (che a quel tempo chissà come si chiamava), le Agane invece ai piedi della montagna, nelle acque del But, che a quel tempo passava molto più vicino alla montagna, proprio ove oggi c’è il centro storico del paese
La differenza tra gli Sbilf e gli uomini, non era tanto o non era solo nella dimensione del corpo. Erano degli uomini in miniatura, ma avevano la testa anche più grande di quella degli uomini d’oggi, perché nel loro cervello si era sviluppata una grandissima capacità di pensiero. Gli uomini devono mediare con la parola o con la scrittura la comunicazione del loro pensiero, gli sbilf comunicavano direttamente. Il pensiero di chi voleva comunicare, si metteva immediatamente in relazione con il pensiero degli interlocutori, come se le onde del pensiero fossero onde radio
Nella evoluzione dai piccoli uomini agli uomini s’è persa questa particolare capacità di comunicazione. Derivava infatti dalla grande disponibilità degli sbilf a comunicare ed a rapportarsi in positivo con i propri simili. Diventando, con l’evoluzione, più consistente la massa corporea, ha preso sempre più rilievo la coscienza di sè, è diventato sempre più forte l’egocentrismo, sempre minore la disponibilità verso gli altri, e così anche la capacità di pensiero negli uomini si è chiusa in sé, è diventata capacità di riflessione, più che di comunicazione. Obiettivo primario per l’uomo è diventato il proprio corpo e si è persa quella capacità di pensiero che faceva in modo che gli sbilf fossero tutti poeti. La capacità, rimasta ora soltanto in qualche uomo eccezionale, di saper cogliere e vivere la bellezza della natura, di godere nell’emozione del rapporto immediato ed istintivo con la bellezza del creato.
Ma anche i rappresentanti del Piccolo Popolo avevano i loro problemi!... In particolare li angustiava l’impossibilità di conservare nel tempo il pensiero comunicato. Non conoscendo la scrittura, e non avendo altre forme di registrazione, potevano comunicare solo in tempo reale e non in differita. Finchè non ci fu la invenzione di Precefic!...
Era costui uno Sbilf che viveva in una grotta ai piedi dello Strabut, poco sopra l’attuale Museo Carnico. Tra l’imbocco della grotta e il greto del fiume passava un sentiero molto frequentato dai cani nel passeggio serale. “Dovremmo riuscire ad inventare qualcosa del genere!” disse un giorno Precefic.
“In che senso?” gli chiesero gli amici.
“Vedi! I primi fanno la pipì e quelli che vengono dopo la riconoscono. Se riuscissimo a far in modo che il pensiero si attaccasse alle cose, come la pipì dei cani, potremmo far in modo che quelli che seguono, possano sentire il pensiero di chi li ha preceduti”.
Precefic era un tipo che quando gli davi un input, gli si scatenavano i neuroni nel grande cervello. A forza di pensare gli venne la febbre, gli si sballarono tutti i valori, la glicemia gli andò alle stelle, ma alla fine pur stremato e sfinito, ebbe ancora la forza di dire: “Ho trovato!”
“Che cosa hai trovato?” gli chiesero gli amici che ormai l’avevano dato per spacciato, e quindi l’avevano abbandonato al suo destino…
Aveva trovato il modo di fissare il pensiero nei sassi! Non chiedetemi come, perché non me ne intendo di tecnologia. Ma sta di fatto che aveva attivato un sistema per il quale gli riusciva di segnare i percorsi con il proprio pensiero, fissandolo ai massi a fianco del sentiero. Tutti quelli che avrebbero poi percorso il sentiero, potevano richiamare e risentire la voce di Precefic, con le osservazioni ed i commenti che aveva fissato nel sasso.
Prese così a segnare tutta la Carnia con il suo brevetto, e invitò le Agane a ripetere i percorsi segnati da lui, riascoltando le sue riflessioni. Di giorno, come un cane, segnava un nuovo sentiero, ed alla sera le Agane in folla uscivano dal But, per ripercorrere il sentiero accompagnate e suggestionate dai pensieri poetici che Precefic aveva fissato nei sassi.
Si ripeteva così ogni sera una scena di incredibile bellezza. Le fate dell’acqua del But uscivano dalla corrente, mentre gli ultimi riverberi di porpora del sole si spegnevano ad ovest sui Monfalconi e, trasportate dalla brezza della sera, come uno sciame di farfalle, salivano le valli di Carnia traducendo in musica, con le loro voci armoniose, i pensieri poetici suggeriti da Precefic.
Una scena che si ripete forse ancora e che, come ho già detto, solo la sensibilità di quegli uomini eccezionali, che sono i poeti, può vedere…Deve essere infatti la scena che descrive Carducci nella poesia “In Carnia”:
De la But che irrompe e scroscia
elle ridono al fragor,
e in quel vortice d’argento
striscian via le chiome d’òr.
Questa leggenda mi è stata raccontata da persona degna di fede che abita nei pressi del luogo dove ci sarebbe stata la grotta abitata da Precefic. Ma una conferma indiretta mi viene dal fatto che poi ai tempi dell’Inquisizione Precefic, per non correre rischi fu costretto a ritirarsi più in alto sul Monte Strabùt, nel pianoro che porta ora il suo nome. Chi vi sale partendo da Pra Castello e si addentra nel pianoro, può ancora vedere i muretti a secco che s’era costruito lo Sbilf per difesa. Ma anche se è soltanto un poco poeta, se in fondo all’anima gli è rimasto un ultimo striminzito brandello di sensibilità poetica non può non sentire proveniente dai grossi massi che punteggiano il pianoro la voce di Precefic che scrive versi per la musica della Agane:
Sempre caro mi fu quest’ermo colle
e questa siepe, che da tanta parte
de l’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma questo è Leopardi dirà il lettore saccente, interrompendomi! Certo che sì! Ma non s’è detto che Precefic aveva trovato il modo di fissare le sue parole ai sassi? Perché escludere che ci sia stato un altro Precefic anche a Recanati e che la poesia dell’Infinito sia lì tra i sassi, nell’atmosfera dei luoghi. Per saperla interpretare e trasmettere ci vuole un Leopardi, ma per sentirla, per viverla, forse basta quell’ultimo straccio di sensibilità poetica, che ognuno di noi si porta ancora in fondo all’anima.
A condizione che quando giriamo per i sentieri di montagna ci muoviamo in silenzio, e con la dovuta attenzione, per riuscire a cogliere le espressioni poetiche con le quali i vari Precefic hanno saputo carpire e fissare nei sassi la suggestione che suscitano i paesaggi incantati, l’emozioni che ci fanno riviere gli ambienti fatati..



Floriano Valle.

A vederlo in quelle condizioni restarono costernati e affranti i suoi, ma restò male ed in pena tutto il paese di Fusea. L’avevano visto partire per l’ultima volta nove anni prima. Era un giovane di diciannove anni dal fisico aitante formato a correre tra i boschi di Maleit e i prati di Curiedi. La folta capigliatura di capelli nerissimi faceva da corona a due bellissimi occhi azzurri. I lineamenti del volto delicati, quasi non fosse nato tra le montagne della Carnia ma in città. La sua era la famiglia più ricca del paese, e già da qualche anno frequentava le scuole a Udine, mentre la maggioranza dei suoi coetanei si e no che sapeva leggere e scrivere.
Era arrivato sul carro di Guglielmo il carradore che faceva servizio di trasporto da Tolmezzo a Fusea. Un mezzo di trasporto senza pretese. Un carro per il trasporto dei materiali attrezzato con due panche lungo i fianchi, sulle quali sedeva la gente. Gli uni di rimpetto agli altri, facendo attenzione a non farsi sbalzare fuori dagli scossoni. Pronti a scendere sulle salite più impegnative della strada lastricata che saliva da Casanova, dietro ai resti del castello di S.Lorenzo, per aiutare i due cavalli ormai vecchi a superare i tratti più erti della salita.
Floriano era arrivato da solo. Se lo poteva permettere il viaggio riservato. Ma in quel caso non era stato per scelta ma per necessità. Non si era seduto sulle panche, ma s’era disteso sul pianale appoggiandosi ad un grosso borsone che si portava appresso. Al posto della gamba sinistra aveva una punta di legno che gli usciva da sotto ai pantaloni della divisa militare. Si aiutava con una stampella di legno alla quale si appoggiava con l’ascella e che teneva con la mano. Aveva quindi scelto di fare il viaggio disteso non sentendosi sicuro sulla panca.
I primi che l’avevano visto arrivare nei tornanti in fondo al paese, avevano fatto fatica a riconoscerlo. Ci volle non poca fantasia per riconoscere nel giovane dall’aria stanca, dal viso macilento segnato dalla fatica del viaggio e dalla sofferenza, il bel ragazzo salutato alcuni anni prima. Melie di Vàs che abitava nella prima casa era abituata ad uscire ad ogni passaggio, per controllare chi stesse arrivando, e non lasciava mai passare nessuno senza avergli rivolto la parola. Dalle persone del paese voleva sapere come fosse stato il viaggio, che cosa avevano concluso in città. Ai forestieri non mancava di chiedere cosa fossero venuti a fare in paese. Vedendo il ragazzo disteso sul carro era rimasta incerta su che cosa dovesse chiedergli. Poi avendo in qualche modo intuito chi fosse, per sincerarsi d’aver visto bene: “Sei Floriano?” gli chiese.
“Si, sono Floriano,” rispose lui.
A Melie che andava famosa per la sua curiosità era venuto in mente un fiume di domande da proporre, ma le si ingorgò la voce nella gola, vedendo il pezzo di legno al posto della gamba, e senza aggiungere altro corse davanti al carro, per andare ad anticipare alla famiglia, che stava tornando il ragazzo. Ma la casa era in cima al paese, si che, passando annunciava l’arrivo a tutti i passanti e quando il carro arrivò in piazza, Floriano si trovò davanti i suoi genitori che erano accorsi attorniati da tutti i compaesani. A vederlo scendere a fatica trascinando il pantalone che copriva la protesi di legno inserita al poso della gamba, non si poteva non provare una grande pena.
“Povero figlio mio, cosa ti è capitato?” gli chiese la madre abbracciandolo.
“Ti spiegherò,” rispose lui soltanto. Costringendo l’intero paese a passare la serata a fare le più strane congetture per dare una spiegazione della gamba di legno, mentre filtravano dalla sua casa le prime indiscrezioni, portate dai parenti più prossimi.
Ma i giorni seguenti fu Floriano stesso a spiegare cosa gli era capitato, a ricordare ciò che aveva fatto in quegli anni lontano dal paese. Prese anzi poi a parlarne ogni giorno, con chiunque fosse disposto a starlo ad ascoltare, come se avesse bisogno di sfogarsi. Ma era un racconto incredibile, sicché dopo averlo sentito più volte, i benpensanti cominciarono a dubitare sulla veridicità del racconto. “Forse il giovane si stava inventando una storia importante, per superare l’handicap psicologico che gli derivava dalla menomazione,” sentenziò il parroco. All’interesse iniziale si sostituì la compassione: lo si doveva stare ad ascoltare per aiutarlo a vincere la difficoltà che trovava a reinserisi in paese in quelle condizioni, lui, il ragazzo che tutti ricordavano a correre in montagna come un capriolo
Raccontava che mentre frequentava le scuola commerciale per diventare linaiolo a Udine, quando nel 1797 erano arrivati a Francesi, preso dall’ardore degli ideali della Rivoluzione era diventato amico di un giovane comandante francese, Michel Ney.
L’aveva conosciuto alla locanda “Alla Posta”. A scuola aveva preso a studiare il francese e quando aveva saputo che in città si era stabilita un guarnigione dell’esercito napoleonico, aveva preso a frequentare il locale abitualmente frequentato dai militari, per potersi così impratichire nella lingua. Aveva letto il Contratto Sociale di Rousseau, aveva sentito parlare molto della rivoluzione francese ed era felice al sapere che anche il Friuli era stato occupato da Napoleone. I suoi soldati parlavano con molta ammirazione del giovane generale che si proponeva di diffondere nell’intera Europa gli ideali affermati dalla rivoluzione: Libertà, Uguaglianza e Fraternità. Floriano si trovò a parlarne quasi ogni giorno intrattenendosi soprattutto con il giovane tenente Michel che lo fece entusiasmare al punto di portarlo a decidere di lasciare gli studi e di arruolarsi con l’esercito francese.
“Avresti potuto almeno avvertirci” gli diceva la madre.
“Sono sempre stato indeciso nel capire se era meglio per voi sapermi da qualche parte in un luogo imprecisato, o sapermi invece a fare il soldato con i rischi che un mestiere del genere comporta. Ho preferito lasciarvi nell’incertezza piuttosto che nella certezza di sapermi a sfidare ogni giorno la morte,” rispondeva lui.
“Si, ma così potevamo anche pensare che tu fossi già morto.”
“Sempre meglio che pensarmi ogni giorno sul punto di morire.”
La madre sapeva che con quel suo figlio non era il caso di insistere. Sin da ragazzo s’era dimostrato uno che vuol sempre avere l’ultima, e lei s’era abituata a lasciargliela. Era già abbastanza felice per averlo visto tornare dopo nove anni, anche se quella gamba di legno le aveva ficcato nel cuore la pena per la disgrazia di avere un figlio storpio.
Raccontava poi dell’amicizia particolare che era nata tra lui e Michel, di come avevano preso a far carriera assieme. Michel come francese sempre davanti a lui, suo superior. Ma anche egli aveva potuto diventare prima tenente e poi capitano. Con i gradi di tenente aveva potuto partecipare alla campagna d’Egitto. S’appassionava a parlare dell’immensità del deserto, della imponenza delle piramidi, della sfinge di Cheope. Ai paesani per i quali già l’andare a Tolmezzo costituiva un viaggio, mentre pochi avevano avuto la ventura di arrivare qualche volta sino a Udine, il racconto delle peripezie di Floriano, finiva per sembrare una leggenda. Ma, si sa, il confine tra storia e leggenda non è mai così chiaro, e spesso la realtà supera la fantasia, soprattutto nelle persone nelle quali l’esperienza limitata non ha dato alla mente i puntelli necessari per poter sviluppare l’immaginazione.
In Egitto, i due amici s’erano fatto apprezzare ed erano entrati a far parte della guardia personale del generale. In questa veste il 2 dicembre del ’04, aveva partecipato in Notre Dame all’incoronazione di Napoleone ad Imperatore. Il Papa stesso Pio VII era venuto appositamente da Roma. La cerimonia poi…la cattedrale…una cosa da non riuscire ad immaginare per uno abituato a vedere solo la piccola chiesa di Fusea.
E continuava a raccontare, sempre con nuovi particolari che gli tornavano alla mente, che rafforzavano l’impressione che si stesse inventando tutto.
L’interlocutore che lo sentiva per la prima volta, finiva immancabilmente per interromperlo per chiedergli: “Ma la disgrazia di perdere una gamba come ti è capitata? Floriano allora riprendeva in continuazione un racconto simile a quello che aveva già fatto e in qualche modo ancora più inverosimile”.
E’ stato nella pianura di Austerlitz., il due dicembre del 1805 in una battaglia memorabile. Sempre il due dicembre! Nello splendore di Notre Dame e nella ricorrenza a perdere una gamba…bizzarrie del destino… Su un fronte di 15 chilometri erano schierati gli eserciti di tre imperatori. A est i russi dello zar Alessandro 1° e gli austriaci di Francesco II: 93 mila uomini con 278 cannoni. A ovest eravamo noi con Napoleone Bonaparte: 71 mila soldati e 139 pezzi d'artiglieria. La cavalleria della coalizione consisteva in 200 squadroni contro gli 80 nostri.
Facevo parte della guardia dell’Imperatore, ormai comandata dal mio amico con il grado di Gram Maresciallo di Francia, ed ero tra i suoi aiutanti di campo con il grado di capitano. La sera prima l’avevo salvato da morte sicura. Eravamo una ventina a cavallo e lo accompagnavamo per una ispezione al campo di battaglia, quando ci imbattemmo in una pattuglia di cosacchi. Ci aggredirono con furia avendo riconosciuto l’Imperatore, allora io ho afferrato le briglia del suo cavallo e l’ho trascinato via al galoppo, mentre gli altri trattenevano i russi.
Quando scendemmo da cavallo vicino alla sua tenda mi guardò in un modo che non posso dimenticare. A parole mi rimproverò per averlo tolto dalla mischia, ma con lo sguardo mi ringraziò, senza attendere che gli spiegassi la motivazione del mio gesto. Anche dalla decisione di un piccolo uomo a volte può dipendere il corso della storia
All’alba del giorno dopo eravamo già in piedi quando ancora faceva buio. Eravamo immersi in un mare di nebbia che solo verso le dieci il sole riuscì a diradare I nostri si erano ritirati dal villaggio di Austerlitz dando al nemico l’impressione che ci si stesse preparando alla ritirata. Napoleone ne sapeva una più del diavolo. Aveva ordinato al generale Bernadotte di tenersi nascosto più in dietro con i suoi venticinquemila uomini e quando i nemici pensavano d’aver sfondato sulle ali, lanciò la riserva al centro sulla collina di Pratzen.
Napoleone era sempre in prima fila nelle battaglie, sprezzante del pericolo, e in un primo momento accompagnammo anche noi all’assalto i soldati di Bernadotte. Poi ordinò alla scorta di ritirarsi, voleva salire sul campanile della vicina chiesa di San Antonio per controllare la situazione. Mentre mi stavo disimpegnando per seguirlo, fui aggredito a sorpresa da un gruppo di russi. Il cavallo ferito a morte mi ha trascinato nella caduta. M’è rimasta la gamba sotto all’animale. Dal dolore che sentivo capivo che s’era rotta.
Non riuscivo a muovermi. Ma intanto i nostri avevano sospinto i russi più avanti, ed io ero rimasto fuori dal campo di battaglia. E’ così che mi sono salvato. All’imbrunire, conclusa la battaglia con la fuga dei nemici, mentre si faceva la conta delle perdite, l’Imperatore stesso s’accorse della mia mancanza, di quello che l’aveva salvato il giorno prima e mandò il mio amico Michel a cercarmi. Mi trovò a terra, con la gamba ancora sotto al corpo del cavallo morto. Fui ricoverato nell’ospedale da campo, ma per evitarmi la cancrena, mi dovettero amputare la gamba. Sono stato per questo costretto ad abbandonare l’esercito ed ho deciso di rientrare al paese.
A forza di sentirlo anche sua madre cominciava a dubitare sulla sua versione dei fatti. L’unica in paese che continuava a credergli era Maria da Nonte, Busolini per l’anagrafe. Ancor prima che partisse tutti la prendevano in giro perché si capiva che aveva preso una cotta per il giovane Floriano di due anni più vecchio di lei. Una cotta senza speranza perché lei usciva da una delle famiglie più povere del paese, mentre Floriano veniva da quella più ricca. I genitori non avrebbero mai consentito ad un loro matrimonio. Prima. ma adesso chi se lo prendeva un marito sciancato, che girava con una stampella…
Per Maria era sempre lo stesso, con o senza stampella e quando lui le chiese: “Ma come fai a continuare a seguire uno senza una gamba?” Lei rispose: “Non ho mai pensato che gli uomini si dovessero giudicare dalle gambe”. Alla fine si sposarono. I suoi capirono che in quelle condizioni aveva bisogno d’una donna che gli volesse bene, anche se non aveva la dote. D’altra parte Napoleone gli aveva riconosciuto una pensione a vita e quindi non aveva problemi di soldi. Si sposarono (il due dicembre del 1806!) e presero a vivere felici e contenti, come è normale nelle leggende e nelle favole
Ma questa non è finita così! Un giorno arrivarono a Tolmezzo due cavalleggeri dell’esercito francese chiedendo notizie di Floreano Valle, colonnello di cavalleria del Reggimento Italiano a difesa di Napoleone Imperatore. Gli dovevano consegnare una “Pergamena” uno speciale riconoscimento cioè per il servizio prestato. Fu loro indicato che dovevano salire fino a Fusea. Cosa che fecero per consegnare a Floreano la pergamena. E dato che Napoleone sapeva bene che la gratitudine non deve fermarsi alle parole, la accompagnarono con un sacchetto di Napoleoni d’oro coniati con la dicitura “Bonaparte Premier Consul”. Valle che era già ricco di suo, che aveva già la pensione con quei dobloni si comprò quasi tutta la valle di Curiedi. Maria gli dette anche un figlio che chiamarono Giacomo, e tra i loro discendenti ebbero quel Gregorio Valle che per ben venti anni rappresentò la Carnia in Parlamento ed un giorno arrivò a Fusea accompagnato da una nobildonna russa figlia dell’ambasciatore russo a Roma, che aveva appena sposato nel Municipio di Tolmezzo il 2 ottobre del 1907. Era forse destino che il matrimonio dell’erede chiudesse il cerchio del rapporto con in russi che aveva fatto perdere la gamba a Floriano!. Pare di no se, come sembra, Gregorio smesso i panni di deputato, ha seguito la moglie in Russia ed è rimasto impigliato nei fatti della rivoluzione d’ottobre.
Questa che ha tutta l’aria d’essere una leggenda e che come tale viene qui presentata è invece un fatto storico. Gli elementi raccontati sono tutti veri (o quasi!), ma presentati nella forma del racconto, danno subito l’impressione d’un racconto leggendario. A conferma che il discrimine tra storia e leggenda non è poi così facilmente individuabile…D’altra parte se Floriano non veniva creduto quando raccontava, non può toccare sorte diversa a chi riporta il racconto della sua vita, o racconta altre cose, come sono di norma le cose degli uomini, sempre sospese tra storia e leggenda…



Bibliografia.

Il termine è improprio. Si riportano di seguito gli estremi dei libri che sono stati citati nel corso del racconto e che mi sono riletto come aiuto nella stesura del racconto stesso. Nell’idea che il libro possa diventare una traccia ed uno spunto per ulteriori approfondimenti, da parte degli studenti, l’indicazione dei libri può costituire un primo suggerimento sui testi da utilizzare per le ricerche.
Per la storia europea per evidenti motivi di nostalgia ho seguito i libri di testi che usavo come insegnante ai miei tempi all’Istituto Magistrale di Tolmezzo e quelli che mio figlio usava al Liceo “Pio Paschini” trenta anni dopo. E quindi il Camera-Fabietti ed il Guarracini-Ortoleva-Revelli. Non è certamente un criterio! Ad indicare proprio che il riferimento può essere qualsiasi testo in uso negli Istituti superiori.
Inizio l’elenco con i testi di Puppini e De Pauli dei quali il mio costituisce per molti tratti un riassunto, ed ai quali, volendo, si può attingere anche per l’esauriente bibliografia.

M. De Pauli – Tolmezzo nell’800 fra Carnia e Friuli
C. Puppini – Tolmezzo, storia e cronache di una città
murata e della contrada di Cargna.
C. Puppini – Tolmezzo, il Settecento.
Pio Paschini – Storia del Friuli..
AA.VV – Tumieç.:
Stefano Brollo – Rapporti tra l’uomo e l’acqua: il caso tolmezzino.
Alessio Fornasin – Bartolomeo Camucio.
Giorgio Zoccoletto – Il vizio del conzo pubblico di vino.
Luigi Antonimi Canterin – Tolmezzo Napoleonica e lombardo-veneta.
Laura e Marco Puppini – Socialisti, Popolari, Fascisti nella Tolmezzo del primo dopoguerra.
Marco Lepre – Il “trenino” dello sviluppo.
Sergio Zilli – Il comportamento elettorale della comunità tolmezzina.
Flavia De Vit – (a cura di) Tolmezzo capitale della Carnia
da 650 anni (atti del convegno).
Donata Degrassi – Tolmezzo costruzione di un centro
urbano, in Tolmezzo capitale della Carnia.
F. Bianco – La Comunità di Carnia.
F.Bianco – La crudel Zobia grassa.
G.C. Menis – Longobardi d’Italia.
Francescatto – Salimbeni – Storia, lingua e società in
Friuli
Niccolò Grassi – Notizie storiche della Provincia della Carnia.
G. Gortani - L’Arengo ed il Consiglio
(in nozze Linussio – Busolini)
Gabriele.Renzulli – Economia e società in Carnia fra 800
e 900.
Roberto Meneghetti – La Cassa rurale di Tolmezzo tra le
due guerre mondiali.
Mario Candotti – L’offensiva tedesca contro la zona libera
della Carnia.
Ferigo Giorgio – (a cura di) Cramars.
Morocutti Cristoforo – Memorie dell’occupazione
militare austriaca dal 15 agosto al 15 ottobre 1866.
Pier Silverio Leicht – Breve Storia del Friuli.
G. Bergagnini – Nie ponimaiu (Non capisco), l’incredibile
vicenda di un alpino della Julia.
Gino Di Caporiacco – L’emigrazione dalla Carnia e dal
Friuli.
F. Durante – Terremoti in Friuli.
L. Pauli – Le Alpi: archeologia e cultura del territorio.
Dall’Antichità al Medioevo.
Silvia.Marcolini – Il Duomo di Tolmezzo.
Gilberto Dell’Oste – Tolmezzo medioevale – Il quaderno
dei camerari di S. Martino (1402 – 1486)
Frediano Bof – La cooperazione nella Venezia Giulia
dalle origini alla seconda guerra mondiale.
Carlo Dal Cer – La Comunità carnica e le sue valli.
Studio economico e sociale.
. Olinto Marinelli – Guida della Carnia e Canal del Ferro, a
cura di M.Gortani.
Giuseppe Marchi – Le mura le torri ed il castello di
Tolmezzo.
D. Molfetta – Torre Mostarda.
D.Molfetta – Opifici idraulici e fluitazione del legname
nell’Alto But.
A.Cafarelli – (a cura di) Cooperazione e sviluppo
economico in Carnia tra Otto e Novecento.
A. Cafarelli – La cooperativa della luce.
Franco.Quai – Il capitolo della Carnia e i suoi Statuti.
Franco Quai – Protostoria del Friuli – I Celti.
Tiziano Tessitori – Storia del movimento cattolico in
Friuli
Corrado Venturini – Si forma, si deforma, si modella.
C. Venturini (a cura di) – Alta Valle del But.
Natalino Sollero – L’Incarojo tra storia e leggenda.
Pier Arrigo Carnier – Lo sterminio mancato.
AA.VV – I Cosacchi in Italia (atti convegni di Verzegnis)
Giuliano De Crignis – E sempre sia lodato (a cura di Manuela Quaglia)
Angeli . Candotti – Carnia Libera – La repubblica partigiana del Friuli.
Maniacco – Montanari: I senza storia, il Friuli dalle origini al 1866.
Kruta – Manfredi: I Celti in Italia.
Ciani – Seccardi – Guida commercialie, industriale ed
amministrativa della Carnia e Canal del Ferro 1902-3
(Biblioteca Gortani)




Le tesi di laurea.

Ho voluto aggiungere una sezione dedicata alle tesi di laurea di argomento locale raccolte nella biblioteca di Tolmezzo. Non credo siano tutte e quindi invito i laureati a far dono della copia della loro tesi alla biblioteca, quando il tema è d’interesse locale.
L’aggiunta ha lo scopo di incentivare i giovani laureandi a scegliere argomenti di carattere locale, per fare del momento culminante dei loro studi un momento di raccordo tra quello che hanno imparato e i problemi della loro terra. Con il loro aiuto e quello dei loro docenti si potrà giungere ad approfondire i vari aspetti della vita e della storia del popolo nella terra di Carnia.

GianCarlo Veritti – Storia della cooperazione in Carnia.
Mariagrazia Voltan – Le Comunità montane dell’Alto Friuli.
Laura. Rossi – La Carnia all’inizio del ventesimo secolo, aspetti
economici sociali e politici.
Antonio.Martini – Tolmezzo “caput et matrix provinciae Carneae” nel secolo XVI..
Eva Dorigo – Benito Mussolini maestro a Tolmezzo, società ed economia locale in età giolittiana.
Amabile Marcon – Indagine e progettualità territoriale dell’area carnica.
Davide Pascolini - Le consuetudini legislative di Tolmezzo (XIII-XV sec.) le sue situazioni politiche nel generale sistema di diritto comune.
Daniela Radina – Le istanze di autonomia in Carnia come ipotesi di soluzione ai problemi della montagna (1945-2006)
Sara Pedrazzoli – Analisi socio-demografica della città di Tolmezzo. Criteri di valutazione della qualità della vita.
Fabio Verardo – I cosacchi di Kransoff in Carnia attraverso il libro storico di don Graziano Boria e la memoria di Gaetano Cola.
Monica Topolini – Siro Angeli: il teatro.
Marisa De Pauli – Intorno a Quirico Viviani.
Claudio Lorenzini – Tra demografia storica ed etnologia alpina. Le comunità alpine della Pieve di In villino in età moderna.
Cristina Scarselletti – Un esempio di emigrazione carnica in Istria attraverso la corrispondenza di G.Antonio Micoli.
Cristian Battigelli – Le ferrovie in Carnia tra ‘800 e ‘900.
Alessandro Boiti – L’utilizzo della risorsa bosco in Carnia.
Aldo Cortolezzis – I finanziamenti comunitari a sostegno della montagna: esempio pratico di riconversione della polvereiera di Pissebus.
Lucia De Reggi – L’evoluzione organizzativa dei servizi sociali in Carnia (1981-2000) l’informazione dei media locali e la percezione degli operatori.
Lucia De Reggi – Analisi dello sviluppo economico e sociale della Carnia.
Erika Pagavino – Tendenze demografiche, sviluppo economico ed assetto del territorio in un area di antico spopolamento. la Carnia.
Ilaria Pilosio – Michel Sticotti: il Friuli e le letterature francofone.
Sara Maieron – La Carnia tra mutamento e conservazione nella visita pastorale del vicario patriarcale Agostino Bruno (1602).
Amanda Talotti – Tolmezzo e la Carnia – le evidenze archeologiche dalla fine della tarda antichità al Medioevo.
Daniela Clocchiatti – La vetrina orientale del made in Italy: il Friuli Venezia Giulia per uno sviluppo turistico sostenibili.
Paola Morocutti – Lo sviluppo socio economico dela Carnia e del Canal del Ferro-Valcanale.
Elisa Candussio – Giovanni Gortani e la Carnia nel tardo Medioevo.
Claudio Lorenzini – Scambio di frontiere: comunità di villaggio, mercanti e risorse forestali nell’alta Val Tagliamento fra la seconda metà del Sei e la fine del Settecento.
GianCarlo Zinutti – L’attività pittorica di Antonio Schiavi.
Antonietta Jus – Il culto della Vergine in Carnia.
Manuela Terenzani – Domenico da Tolmezzo: pittore e intagliatore.
Vincenzo di Gioia – Carnia: rapporto uomo casa ambiente.
Luisella Corraduzza – Il culto dei Santi in Carnia.
Lucio Zanier – Studio geolotologico del conglomerato di Verzegnis.
Dino Billiani – Studio geopetrografico delle Vulcaniti fra la valle del Chiarsò e la Val Aupa
Mauro Bidoli – Studio geopetrografico della zona di Cuel Chiercon..
Anna Maria Navarra – Danze giochi e sport nel folklore friulano.
Maria Luisa Nigris – Le tradizioni popolari della Carnia nelle pubblicazioni e negli inediti di Michele Gortani.
Claudio Bearzi – Indagine psico-sociologica sul fenomeno alcolismo nel territorio della Carnia.
Ezio Banelli – I nomi locali nel Comune di Arta Terme.
Jaro Stacul – Strumenti tradizionali del lavoro agricolo a Lauco in Carnia.
Patrizia Donada – Il problema dello sviluppo dell’imprenditorialità in Carnia: analisi delle basi geografiche.
Mauro Cucchiaro – Sottosviluppo economico, cooperazione e Banca in Carnia tra ‘800 e ‘900.
Paola Iasci – Maria Zef: un libro e due film.
Laura Tosoni – La popolazione di Tolmezzo dal XVII al XIX secolo.
Enza Sina – Narrativa di tradizione orale in Carnia: Enemonzo e Preone.
Mirta Faleschini – La carta archeologica della Carnia e del Canal del Ferro-Valcanale.
Manuela Quaglia – La toponomastica dell’isola tedesca di Timau.
Daniele Ariis – La Cassa rurale di Tolmezzo tra economia locale e società.
Francesca Morassi – Il registro di popolazione nelle ricerche microdemografiche. Nuove prospettive nello studio della sopravvivenza di una comunità carnica: Cercivento.